Benvenuto: PAX et BONUM

Benvenuto: PAX et BONUM

mercoledì 30 novembre 2011

Mercoledì 30 novembre 2011

Mercoledì 30 novembre 2011

Sant’Andrea apostolo
Parola del giorno
Lettera ai Romani 10,9-18; Salmo 18,2-5b; Vangelo di Matteo 4,18-22

Antifona e Salmo 18,2-5b

Per tutta la terra si diffonde il loro annuncio.
2 I cieli narrano la gloria di Dio,
l’opera delle sue mani annuncia il firmamento.
3
Il giorno al giorno ne affida il racconto
e la notte alla notte ne trasmette notizia.
4 Senza linguaggio, senza parole,
senza che si oda la loro voce,
5
per tutta la terra si diffonde il loro annuncio
e ai confini del mondo il loro messaggio.

Vangelo di Matteo 4,18-22

In quel tempo, 18 mentre camminava lungo il mare di Galilea, Gesù vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 19 E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». 20 Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono.
21
Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedèo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. 22 Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

Subito

Subito, in greco euthùs, è un avverbio con significato di: “rettamente drizzato, dritto; schietto, giusto; subito, corretto, immantinente”. È uno degli avverbi preferiti dal vangelo e dall’amore. Il subito del vangelo non porta con sé la tensione della fretta, della pressione, dell’ansia, della paura, ma l’energia della risposta d’amore nella sua pienezza. Il subito del vangelo è nel tempo e nello spazio e in tutte le altre dimensioni e direzioni, è nello spirito e nei muscoli, nella mente e nei piedi, come il di Maria all’angelo Gabriele. Il subito evangelico non è una risposta, ma è la risposta, l’unica risposta possibile a Gesù che chiama. Subito sviscera completamente l’energia del cuore, la dedizione dell’intelligenza, l’assenza del dubbio, il silenzio delle domande. Nel subito evangelico non c’è collegamento al passato, né rimpianto per le cose che sono state, non c’è ansia di prestazione, né tensione per le prospettive, ma solo la determinazione umile e amante del presente. Nel subito evangelico c’è tutta la scelta interiore, il coinvolgimento dell’essere, l’abbandono del cuore insieme alla perfetta, assoluta e umile consapevolezza di non avere le forze perché quel subito diventi subito un sempre. Il subito dell’amore è magnifico, ma poi ci vuole cammino, perseveranza, gradualità, amore e preghiera perché diventi il sempre. Solo rimanendo uniti a Lui, il subito dell’amore può diventare il sempre dell’amante. Pietro e suo fratello Andrea, Giacomo e suo fratello Giovanni hanno scelto e risposto a Gesù con il loro entusiasmante, giovane, fresco, potente subito, ma poi, attraverso quante cadute, tradimenti, infedeltà, paure, rinnegamenti, errori e peccati, quel subito è diventato un sempre nelle mani di Dio e nel cuore di quegli uomini? Davanti a Dio non occorre essere perfetti nel sempre, ma nel subito. Chi mai potrebbe essere perfetto nel sempre? L’amore chiede la risposta del subito, la risposta del subito per ricominciare, per ripartire, per chiedere e offrire perdono. Solo Dio ama subito e sempre, lui ci darà la forza per trasformare in sempre i nostri piccoli, ma decisi, subito.

PREGHIERA DEL GIORNO 30 novembre 2011

Novena dell'Immacolata: 2° giorno. "Benedetta sei tu fra le donne! Perché sei stata trovata degna di ospitare il Signore e sei divenuta luogo in cui si realizza la salvezza" (San Gregorio di Nissa). Con l'umile Serva del Signore, cooperiamo alla salvezza del mondo. Buona giornata con la benedizione divina.

martedì 29 novembre 2011

PREGHIERA DEI NAVIGATORI DI FACEBOOK

PREGHIERA DEI NAVIGATORI DI FACEBOOK
󾬐󾀾󾁁󾀾󾬐󾭌󾬐󾀾󾁁󾀾󾬐󾭌󾬐󾀾󾁁󾀾󾬐
In questo angolo del mondo digitale, Signore,
ci sono centinaia di nomi, appiccicati alle pareti
di una casa che esiste solo sullo schermo
e nella mia fantasia.

Li chiamo "amici", ma molti di loro li conosco poco,
altri solo di vista, altri ancora sono poco più che volti.

Qualcuno non l'ho incontrato,
qualcun altro vive dall'altra parte del mondo;
con qualcuno condivido molto, con altri poco o nulla.
Alcuni li ho scelti. Altri hanno scelto me.

E ora sono qui, sulla mia home
come sorelle e fratelli,
posti sulla mia rotta virtuale.

Te li affido, Signore, uno per uno.
Ti affido le loro speranze, le loro paure,
i loro progetti di felicità.

Rendimi, per loro, immagine - sia pur sbiadita!-
del tuo amore paziente e misericordioso.
Rendimi amico vero, pronto ad ascoltare,
a condividere, a esserci.

Rendimi apostolo, capace di annunciare,
anche sul Web il tuo Vangelo di salvezza.

Ti ringrazio, Signore,
per questo spazio immenso,
per questa vita a colori,
per questi incontri
che forse non sono così casuali.

Tuttavia, Signore,
ti chiedo di non lasciarmi affogare
in questo mondo di non reale compagnia:
risveglia in me il desiderio di uscire là fuori,
di ascoltare voci reali, di abbracciare persone
autentiche e stringere amicizie vere. Amen

Salmo 16

Salmo 16

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene».
Per i santi, che sono sulla terra,
uomini nobili, è tutto il mio amore.
Si affrettino altri a costruire idoli:
io non spanderò le loro libazioni di sangue
né pronunzierò con le mie labbra i loro nomi.
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è magnifica la mia eredità.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce.
Io pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alla mia destra, non posso vacillare.
Di questo gioisce il mio cuore,
esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,
né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.


È certo uno dei salmi più grandi del salterio, un testo dell'Antico Testamento tra i più ricchi di insegnamento, fra i più densi di significato e fra i più difficili da interpretare.
Prima di tutto noi dobbiamo stabilire, perché anche questo ha il suo peso per una meditazione più accurata nelle singole espressioni, chi ne sia l'autore, quale la data della composizione e il carattere particolare del salmo. È opinione, direi, tradizionalmente comune quella che l'autore del salmo sia David, sennonché ostano a questa attribuzione la lingua e soprattutto il contenuto del salmo. Il salmo difatti ha un carattere individuale ben preciso, non é come tanti altri salmi in cui la religione javistica si manifesta essenzi­almente come religione nazionale. Qui siamo di fronte invece ad una della più alte espressioni di pietà individuale, di religione personale. Certo questo non osta di principio all'attribuzione del salmo a David, sia perché David in qualche modo può impersonare la nazione essendo l'Unto del Signore, sia perché egli é un santo, cioè un'anima religiosa eccezionalmente dotata, e il santo può anticipare la pietà religiosa dei secoli posteriori. Se anche la religione javistica è una religione nazionale, é indubbio però che Abramo, Mosé, Elia, David, sono grandis­sime personalità religiose: non vivono il loro rapporto con Dio solo nella misura che essi si sentono investiti di una missione a favore del loro popolo, hanno un rapporto personale con la Divinità; é anzi in forza di questo rapporto personale, che la nazione stessa acquista una sua religione. Non sono essi che fanno parte di un popolo che adora Jahvè, é il popolo piuttosto che entra a far parte di quella alleanza che prima si è stretta fra queste grandi anime e Dio. Non osta dunque per principio che il salmo sia opera di David, ma non é tanto la religione perso­nale che questo salmo manifesta, di cui questo salmo é espressione, che crea la difficoltà di una attribuzione davidica, quanto piuttosto il contenuto di questa pietà personale. Effettivamente qui siamo di fronte a uno dei testi tra i più alti dell'Antico Testamento: rare volte la religione personale nella Bibbia, raggiunge simili altezze. La vita religiosa si esprime con grande. purezza come esclusivo possesso di Dio, ed è questo possesso il bene vero e la gioia dell'anima.
Può sembrare contro a un qualunque dubbio che noi si faccia della attribuzione davidica del salmo il carattere messianico della composizione, dichiarato precisamente da San Pietro negli Atti degli Apostoli, quando citando i versetti ultimi, dice che David aveva già annunciato come il Messia non avrebbe conosciuto la corruzione del sepolcro, ma sarebbe risorto dalla morte. Tuttavia non mi sembra che questa possa essere una difficoltà grave per dubitare della paternità del salmo, perché quando gli autori sacri parlano di David come autore dei salmi, ne parlano come parlano di Salomone autore dei libri sapienziali, come parlano di Mosè, autore della Torah. In Israele infatti si attribuiscono tutti i salmi a David e tutti i libri sapienziali a Salomone, come tutte le leggi a Mosè. David è per antonomasia l'autore dei salmi. In fondo, l'antico Israele, non conosce altri salmisti che David. È vero che il Salterio parla espressamente di alcuni altri autori oltre David, il Libro dei Proverbi attribuisce ad altri oltre che a Salomone alcuni detti sequenziali, e tuttavia mai nella tradizione comune ci si riferisce a questi altri autori quando si vuol parlare o dei libri sapienziali o dei salmi, ma unicamente a David come autore dei salmi, e a Salomone come autore dei libri sapienziali.
Così David, primo re di Israele e tipo messianico, grande uomo di stato e grande poeta, ricopre della sua autorità anche dei testi che non sono precisamente davidici, così come Salomone il re saggio per eccellenza, ricopre della sua autorità tutti i detti sapienziale che perciò sono attribuiti a lui. Non credo che l'attribuzione davidica sia assolutamente certa, ma non voglio nemmeno negare in modo assoluto a questa attribuzione: mi sembra che dubitare di questa attribuzione sia piuttosto un servizio all'esegesi perché ci permette di dare un senso e un valore più grande di quello che potrebbe avere se fosse stato David ad averlo composto. Mi sembra che la pietà personale di questo salmo pur facendo i conti con la santità di alcune figure eccezionali che Israele ha avuto nel suo passato, che questa vita di comunione con Dio, che l'espressione di così intima fruizione di Dio debba essere l'espressione di una pietà postesilica, della pietà cioè di un Israele purificato dal dolore che, passato attraverso la tormenta, ha cominciato a capire come Dio non debba essere servito per ottenere la ricchezza, la potenza e la gloria, ma debba essere servito per nulla, perché il massimo dei beni è poterlo servire, è massima gloria essere chiamati a lodarlo, è massima ricchezza possedere Lui solo.
Questo è il contenuto del salmo: l'uomo si trova in mezzo a tribolazioni senza numero, soprattutto perseguitato dai potenti e dai "santi". I "santi" non sono i fedeli a Jahvè, ma i consacrati, che possono essere i re e possono essere i sacerdoti. Con più probabilità ci sembra che stia a significare i sacerdoti, dal momento che distingue i potenti dai santi per dirci che Dio non si compiace né degli uni né degli altri. Egli si separa dagli uni e dagli altri e forse e dagli uni e dagli altri è perseguitato e calpestato. Questa mi sembra l'interpretazione autentica del testo che ci è giunto certamente corrotto.
Enzo Zolli traduce: "in quanto ai santi che sono nella terra e i potenti non mi compiaccio di loro". Il salmista è colui che è perseguitato e soffre da parte dei potenti e dei santi ed è per questo diviso da loro, ma anche volontariamente si separa da loro come da una congrega di idolatri e di perversi. Mentre gli unti di Dio, potenti e sacerdoti, lo perseguitano e lo abbandonano nella più grave distretta, il salmista chiede a Dio una protezione che lo salvi, gli dia almeno la certezza della sua unione con Lui, perché questo che gli basta. Gli altri hanno la potenza, l'orante ha Dio nel suo cuore: quello che egli possiede è ben più grande della ricchezza, della potenza che hanno coloro che lo perseguitano. Egli glorificherà Dio perché gli è toccato in sorte, la più grande di tutte. Che cosa può cercare l'anima anche nell'estrema rovina? Egli avrà fiducia, egli riposerà sicuro perché Dio è con lui, Dio è il suo bene.
Sembra che il salmo alla fine accenni anche ad una vita oltre la morte: sarebbe questo uno dei pochi testi che si possono portare, non tuttavia con autorità apodittica a conferma della dottrina della immortalità e della resurrezione: molto probabilmente gli ultimi versetti importano infatti la rivelazione di una vita oltre la morte. La comunione con Dio nemmeno la morte potrà spezzarla mai più. Anche se i nemici vorranno infierire su di lui fino a dargli la morte, egli potrà superare nella sua speranza il male che gli è minacciato perché anche oltre la morte egli sa di poter vivere la sua comunione con Dio. Può darsi invece che il salmo non ha voglia immediatamente insegnarci la resurrezione e l'immortalità, ma voglia significarci come pur vedendosi circondato da ogni parte da minacce e da pericoli il salmista tuttavia sia al sicuro perché Dio lo libererà. Parla di sepolcro e di corruzione, ma forse non vuol parlare di morte, non vuol parlare di tomba, ma di una rovina cui vogliono ridurlo e i suoi nemici e da questa rovina egli ha fede che Dio saprà liberarlo e farlo risorgere.
Anche se questo fosse il significato letterale del salmo, l'esegesi deve comunque approfondirsi seguendo la via che ci ha tracciato San Pietro nell'applicare gli ultimi versetti al Signore, riconoscendo in questo salmo l'annuncio della resurrezione del Cristo. Nemmeno la morte può spaventare il giusto che vive in comunione con Dio perché Dio è immortale, è per il giusto garanzia di vittoria anche sopra la morte. Se l'espressione biblica fosse solo un'immagine, almeno questo rimarrebbe l'insegnamento fondamentale del salmo.
Colui che è fedele a Dio pur nella persecuzione gode la pace perché Dio è con lui. Questo in povere parole il contenuto religioso del salmo. Il salmista non nega che la persecuzione debba accompagnare colui e che è fedele al Signore, anzi riconosce implicitamente che la potenza è di coloro che non sono fedeli a Jahvè, ma sono idolatri della ricchezza e della potenza. La potenza è loro, il fedele a Jahvè non possiede altra ricchezza che Dio. L'anima religiosa non può avere altra gioia che non sia quella del divino possesso. Dal momento che tu hai scelto Dio, tu hai scelto il vuoto delle cose presenti, hai scelto lo spogliamento, l'umiltà, tu hai scelto l'odio del mondo, hai scelto precisamente la morte. Ma non l'umiltà, non la povertà, non l'odio, non la morte, sono per te motivo di pena, perché lo spogliamento a cui ti riducono i potenti rende ancora più grande il sentimento della intimità divina, fa sì che l'anima esperimenti nel suo fondo la ricchezza di Dio nella pace e nella gioia. L'anima vive in Dio, nessuna cosa creata ha potere contro questo divino possesso; l'odio del mondo fa sì piuttosto che l'anima sia consapevole di questo possesso divino e perciò proprio nella massima distretta l'anima non geme, non impreca, ma canta. Proprio nel mezzo della tribolazione si innalza il canto del ringraziamento, della lode a Dio: Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene. Proprio perché non ha più nulla il salmista sente di possedere già la vita del cielo, di vivere la vita di Dio.
Il salmo in fondo non canta una situazione particolare: canta la situazione di una anima che abbia scelto Dio e che Dio abbia scelto per Sé. Questa anima rimane estranea al mondo e il mondo la combatte. Ma nella sua povertà e nella sua umiliazione questa anima possiede un'immensa ricchezza e vive un immenso bene: Dio stesso. La presenza di Dio nel cuore umano ha come sua condizione questo spogliamento esteriore, questo stato di umiliazione e di povertà, questa condizione di pena che è propria di un esule e di un perseguitato. Che cosa chiede l'anima Dio? Per quel che riguarda la propria vita, una cosa sola: che il male, che l'odio, non debbano sopraffarla. La protezione divina si manifesta efficace col far sì che l'anima sostenga il peso della solitudine umana senza esserne schiacciata. Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio. Dio è il rifugio dell'anima: nella sua povertà e nella sua impotenza ella si sente indifesa ed implora una difesa divina, ma non chiede che i mali tolti le siano restituiti da Dio, non chiede che alla persecuzione, onde l'anima deve vivere come fuggiasca ed esule, risponda Dio reintegrandola nei primitivi diritti, riportandola al possesso di un bene terreno. Se l'anima si rifugia in Dio, è perché in fondo, in Dio già tutto possiede. Nella povertà di ogni cosa ella non sente quanto le è stato tolto perché essa ora si accorge di quale bene è gratificata. Dalla sua povertà ella è ricondotta nell'intimo, è riportata se stessa, e dimorando in se stessa e rientrando dentro di sé ella si accorge di avere un bene immenso, superiore a tutti i beni che le sono stati rapiti, superiore a tutti i beni che il mondo potrebbe offrirle: Dio è il Bene dell'anima. Tutto quello che l'anima può desiderare, tutto quello che l'anima può volere, tutto ella ritrova in Lui. Nella suprema distretta ella gode un'immensa pace. Dio è la sua ricchezza divina, Dio è la sua pace.
Ho detto a Dio: Sei tu il mio Signore. Che cosa vuol dire sei tu il mio Signore. Noi non possediamo le cose che essendone in qualche modo posseduti. Ogni possesso e implica anche una schiavitù. Perciò San Paolo nella Lettera agli Efesini parla dell'avarizia come di una idolatria. Ogni proprietà che tu hai ti rende anche schiavo. Soltanto l'anima povera, disprezzata, umiliata, calpestata dal mondo, soltanto l'anima che si trovi priva di tutto può adorare Dio, e riconoscerlo come suo Signore. Nella sua suprema povertà ella è libera per questo servizio divino. Ella è libera per il riconoscimento di questo supremo dominio che Dio ha su di lei. Soltanto il povero è fedele e non si piega a nessuna idolatria. Il salmista soggiunge: senza di te non ho alcun bene. Il secondo versetto senza di te non ho alcun bene è la spiegazione del primo. Perché il Signore dell'anima è Dio? Semplicemente perché l'anima non ha altro bene che Lui. Così noi veramente riconosceremo Dio come nostro Signore quando saremo in Paradiso e l'anima nostra spoglia di tutto, povera di ogni altro bene, anche del corpo, non possederà più che la luce divina, non possederà più nient'altro che Dio. Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene. Sono parole meravigliose. Noi siamo facili ad usare un linguaggio falso e retorico specialmente nella pietà. Quante volte si dice a Dio che si ama! e chi di noi direbbe di essere idolatra? crederebbe di essere idolatra? e tutti lo siamo. Non per nulla l'Antico Testamento praticamente riconosce solo questo peccato: l'idolatria, l'apostasia da Dio. Da dove nasce di idolatria? dal fatto che tu ti metti servizio di un altro signore. Ascolta Israele - dice il Signore - Io sono il Signore Dio tuo. Io il tuo Signore, io dunque anche la tua mercede. Io il tuo Signore, io dunque anche la tua proprietà, perché l'una cosa implica l'altra. Dio è il Signore di Israele nella misura che Israele ripropone in Dio ogni suo bene. Questo è vero per Israele intero, e di fatto Israele vivrà i suoi comandamenti divini e sarà fedele dopo l'esilio, quando Dio gli avrà tolto la terra, la monarchia, ogni potenza, ogni gloria, ogni sicurezza, e non rimarrà a Israele null'altro che la divina elezione. Così per la anima. L'anima potrà riconoscere Dio solo quando all'anima non rimane più la sua vocazione di amore. Bisogna aspettarci di tutto se Dio deve essere il nostro bene, bisogna che tutto questo si dimostri e si manifesti nell'essere noi strappati ad ogni bene terreno cui l'anima nostra si aggrappa nella paura, nello sgomento che tutto le manchi. È quando tutto ci sarà tolto, che la nostra parola sarà pura, allora la nostra preghiera sarà vera e la nostra testimonianza verace e fedele. Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene.
L'anima religiosa è messa in disparte, buttata ai margini di questo mondo. Su questo fiume limaccioso del tempo, ella è sempre mandata alla deriva, buttata al di fuori. Non si trova nel cammino della potenza, della ricchezza. È al di fuori. Quello che appare ci inganna: la potenza, la ricchezza, sono per le anime semplici, per le anime umili che nessuno conosce. Sono questi gli eletti di Dio. Sembra che essi siano il piedistallo su cui si erge la potenza, ed è il contrario che è vero. La potenza, la ricchezza, è al servizio dell'umiltà, è al servizio dei poveri che nessuno conosce e passano ignorati perché Dio li conserva per Sé, li vuole tutti per Sé; passano ignorati dal mondo perché essi sono di Dio.
Santo può essere Saul per i David, se David è il cantore del salmo, possono essere i re apostati del regno di Israele o del regno di Giuda: manasse, Acab, Iezabele, possono essere i sacerdoti infami dell'epoca maccabaica. Il mistero è profondo. L'economia cristiana, in un piano più alto, non ripete forse l'economia antica? Anche oggi i potenti del mondo sono a servizio degli umili. Nel Vangelo di San Giovanni Gesù è il nuovo Agnello Pasquale. Giovanni fa coincidere la morte di croce all'immolazione dell'Agnello, per insegnarci che il vero Agnello è Gesù, la vittima di sostituzione. Ma da chi è immolato? La passione del Cristo si inizia con la profezia di Caifa, che è sacerdote. Gesù riconosce legittimo il sacerdozio da cui dipende la sua morte. Non solo viene iniziato con la profezia, ma è proprio per il sacerdozio che Gesù viene condannato. Erode non lo vuole condannare: lo veste da pazzo e lo rimanda. Pilato non lo vuole condannare: cerca in tutti i modi di salvarlo. Chi vuole la sua morte è il sacerdozio ebraico ed è giusto anche che sia così. Quale mistero? Qual è l'ufficio principale del sacerdozio se non il sacrificio, l'immolazione della vittima? E perché ci stupisce che nella Chiesa il potere sacerdotale, alcune volte, debba esigere il sacrificio degli uomini? È normale, ed è un fatto grandissimo, è un fatto meraviglioso. Comunque, stia attento il potente, stia attento anche il santo. Il santo, il consacrato sarà salvo solo se vivrà il suo ministero ha precisamente come servizio ai poveri. Per loro egli vive: in funzione di loro tutta la gerarchia, tutta la potenza della Chiesa, tutta la grandezza dei sacri ministeri, tutta l'autorità di cui Dio ha rivestito il sacerdozio.
L'anima che possiede Dio, il fedele a Jahvè è colui che si trova al di fuori. Colui che anticipa la vita celeste sottraendosi al mondo presente. Ma come potrebbe sottrarsi a questo mondo ed essere di un altro mondo se ancora egli è radicato quaggiù per quello che possiede, per quello che ama, per una sua volontà di potenza? Sradicamento dal mondo vuol dire povertà, vuol dire solitudine e vuol dire umiltà. L'anima che possiede Dio non è soltanto, però, quella che da se stessa si pone in questa condizione di umiltà e di povertà: è quella che piuttosto che, indipendentemente dalla sua volontà, ma non contro sua volontà, si trova in questa condizione come privilegio divino. Questa anima non ha altro rifugio che Dio, né può conoscere ormai altra proprietà che il Signore. Essa anticipa la vita celeste nella povertà e l'umiltà della condizione terrena o anche nel soffrire persecuzione da parte della potenza e della ricchezza del mondo; la tentazione alla potenza! I potenti non sono coloro ai quali serve il potere: sono quelli piuttosto che sono asserviti. "Sono molte le immagini sacre alle quali offrono doni amorosi". Ecco dove porta la potenza! nell'essere schiavi alla idolatria di ciò che viene posseduto. L'idolatria è la malattia comune di ogni anima che non viva nella povertà più nuda, nell'umiltà più grande.
Si affrettino altri a costruire idoli: io non spanderò le loro libazioni di sangue. La libertà dell'anima di fronte a tutto! L'anima è veramente libera nella sua povertà. Domina il mondo colui che sa rinunziarvi. Soltanto questa anima non offre libagioni di sangue, non sacrifica se stessa a idoli vani. Ma cos'è la nostra vita se non un continuo rito, un sacrificio di noi stessi alle cose del mondo? Un sacrificio del nostro tempo, della nostra salute, forse della nostra anima a chi non è Dio. La vita è sempre una liturgia: una offerta a Dio oppure un'offerta a idoli vani. Ci si sacrifica alla cultura, ci si sacrifica alla moda, ci si sacrifica alla vanità, alla sete di denaro, alla potenza! perché non siamo liberi, perché non siamo poveri, perché non abbiamo Dio come nostro solo bene. Se non si arriva a sacrificare la propria anima, si sacrifica il sonno, il riposo, la salute, la vita.
Io non spanderò le loro libazioni di sangue. Lo può dire soltanto colui che non vuole altro che Dio, perché volere Dio è non essere attaccato più a nulla, è possedere libertà perfetta di fronte a tutte le cose. Così rimango fedele a Dio solo. E allora sono figlio della Chiesa. Quando anche fossi spogliato di tutto, di Dio nessuno potrà spogliarmi: anzi è proprio in questo mio spogliamento supremo che può manifestarsi la santità più alta. Prima la parte negativa: l'anima si separa da tutti gli istinti ma vive in comunione con Dio. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice. Il Signore è sua proprietà. Lo aveva già detto prima all'inizio, ma lo ripete con un linguaggio più aperto e spiegato; sembra che ora dopo aver rifiutato i beni del mondo, dopo essersi separato da tutti, ora egli dia libero sfogo al suo canto, voglia espandersi nella lode. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice. Alla mensa, nei paesi orientali, si passa il calice, tutti ne hanno parte ed è un calice solo. Ecco: tu porti l'anima al banchetto cui Dio ha invitato prima Israele e poi tutti popoli. A questo banchetto che è la vita del mondo, la parte che è toccata all'anima è Dio. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice. L'anima non è più sgomenta. Prima Dio era il suo rifugio: proteggimi, o Dio: in te mi rifugio. Ma ora l'anima non implora più la protezione è la difesa di Dio. Ora è l'esperienza dell'anima, è essere nelle mani di Dio. La sua parola è stata efficace. Dio è il possesso vero dell'anima perché Dio stesso ha fatto dell'anima la sua proprietà più gelosa. Continua: Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi.... L'anima parla di una terra fertile. Con immagini sempre nuove, con immagini di un vivo realismo che si rifà ai costumi di allora, il Salmista esprime sempre la stessa realtà di un possesso divino. Il Salmista non ha nessun bene all'infuori di Dio: Dio è per lui un'eredità, è la parte del calice, è un luogo delizioso. E l'anima si compiace di questo divino possesso: è magnifica la mia eredità. L'anima non sente le sue privazioni, l'anima non soffre della sua solitudine, l'anima non avverte più la sua povertà. La sua povertà, la sua solitudine è soltanto segno di un'immensa ricchezza, di un'immensa gioia che l'anima gode nel possesso divino.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio; anche di notte il mio cuore mi istruisce. Certo non dipende sempre dall'anima l'essere scartati, rigettati ai margini della vita; l'elezione divina sembra alcune volte anche fare a meno di un nostro consenso. Quante sono le anime che non fanno in fondo che accettare la propria sorte e non sanno che in questa sorte è il segno di una predilezione divina! Ma ora si parla, invece, di una accettazione, di un consenso amoroso:Benedico il Signore che mi ha dato consiglio. Per questo il salmo è stato scelto per l'iniziazione monastica. È Dio che ha chiamato l'anima, ma è l'anima che ha assentito al desiderio e nell'umiltà ha obbedito alla voce di Dio. E la parola che ci chiama si fa udire anche di notte. In una esegesi letterale sembra che si debba intendere come anche nei sogni Dio istruisca l'anima; i sogni per gli antichi semiti erano un segno divino; l'interpretazione dei sogni faceva parte del carisma profetico. Per noi cristiani non si deve parlare di un'altra notte? Dio parla all'anima anche quando si trova nelle tenebre e nel vuoto. Dio non si allontana mai da colui che ha potuto dire che il Signore era l'unico suo bene.
Il Salmista non considera più la condizione dell'uomo che ha cercato Dio in quanto impone all'anima come un esilio da questo mondo, ma considera invece il lato positivo: Dio è veramente la sua ricchezza. Se è povero umanamente, egli possiede nell'intimo una ricchezza che compensa ogni povertà e ogni umiliazione. Io pongo sempre innanzi a me il Signore. Ecco quello che vive l'anima esule in questo mondo, estranea al mondo presente; l'uomo vive in una nuova patria, in una nuova terra, che è la divina presenza.Perché è però questa divina presenza sia per l'anima una patria, è necessario che l'anima non abbia in Dio soltanto un supplemento, non abbia nel possesso divino, nella pace che gode in Dio come un superfluo alla vita di quaggiù. Molto spesso la vita religiosa degli uomini è precisamente questo: un superfluo. Il mondo ci accusa precisamente di questo: se Dio è Dio, per noi, com'è che praticamente siamo come gli altri, fondiamo nei beni di quaggiù la nostra speranza, vogliamo che la sicurezza economica, la stima degli uomini, l'affetto delle creature siano come il fondamento su cui poggia la nostra esistenza? La vita religiosa e dunque un sovrappiù, è fatta dunque per i ricchi che hanno sempre più di quanto essi hanno bisogno?
Grave accusa i credenti, una vita religiosa che è soltanto un oggetto di lusso, che dona all'anima una ricchezza, oltre la sicurezza che le donano i beni terreni, la stima degli uomini, il potere sugli altri! Giustamente l'anima religiosa non può conoscere altra ricchezza che Dio. Dio non può mai divenire per l'anima un lusso, non è mai il superfluo della vita. Io pongo sempre innanzi a me il Signore, dice il Salmista. L'esercizio della divina presenza non è qualcosa che si aggiunge alla vita che l'anima vive in rapporto con gli uomini, in un possesso di beni terreni, in una sicurezza che le danno il proprio lavoro e la stima degli altri: Dio è tutto il suo mondo. Sì: Gesù rimane causa esemplare della vita religiosa, rimane causa esemplare della vita religiosa ogni santo che è vissuto nel mondo come un estraneo, che è vissuto nel mondo come abbandonato da tutti, dimenticato da tutti, povero e solo; e nella sua povertà ha saputo riconoscere e possedere un bene immenso, Dio: Dio non è come un bene superfluo, ma come la necessità primordiale: Dio come tutta la vita. Questo ci insegna San Francesco d'Assisi.
La presenza di Dio! per noi la presenza di Dio si aggiunge al nostro lavoro. Pensiamo di mantenerci alla presenza di Dio studiando; lo studio è la ragione della vita e si cerca di integrare questa nostra applicazione allo studio con una intenzione religiosa, Dio in fondo è un di più. Perché non ne facciamo a meno? La nostra vita nella sua semplicità non sarebbe più ricca? Uno studioso che faccia a meno di Dio non vive una vita più semplice e più grande di una anima che studia e cerca anche il Signore? Tanto più è grande la vita quanto più è una. Noi di Dio facciamo molto spesso un oggetto di lusso che arricchisce una vita fondamentalmente umana. Dio, tutta la vita! Vivere la presenza di Dio! Si può certo studiare: a il vivere alla presenza di Dio non esclude certamente che si viva un lavoro, che si eserciti una professione, che si abbiano impegni anche umani, rapporti anche umani. Non esclude questo: ma dobbiamo operare questa trasformazione: che Dio sia il fondamento e tutto il resto non abbia valore fondamentale; che noi non siamo prima di tutto dei professionisti e neppure dei padri di famiglia... Prima di tutto questa presenza. Come in Cielo, la presenza di Dio deve essere tutta la vita. Tutta la vita dell'anima deve essere in queste semplici parole: Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare. L'anima che si è consacrata al Signore deve arrivare precisamente a questo: sentire che Dio non è il superfluo, non è un bene che si aggiunge, non è il condimento di una pietanza, la veste che ti ha ricopre. È tutta la vita. Allora, ma allora soltanto, le cose esteriori non toccano l'anima e non tolgono nulla alla pace del cuore; non tolgono nulla alla sua beatitudine, non tolgono nulla alla sua ricchezza interiore. Quando l'anima di tutto ha saputo spogliarsi radicalmente per radicarsi in Dio, allora la vita dell'anima non è che felicità, pienezza di gioia.
Al termine il salmo contempla la vita del giusto come una vita di beatitudine che neanche la morte può compromettere o rovinare. Dio è infinita ed eterna beatitudine e l'anima che vive in Lui non può che possedere in Lui questa beatitudine somma, non può non conoscere e non possedere questa infinita ricchezza. È quello che dice San Paolo nella II Lettera ai Corinzi.
La vita del cristiano è la gioia: ma solo il vero cristiano può conoscerla, solo colui che ha scelto Dio, che lo ha scelto non come una ricchezza superflua, ma come la necessità prima di tutta la sua vita che ha aderito a Lui con una a tale dedizione e adesione interiore e da farsi estraneo ad ogni perturbazione esteriore. Che importa la povertà e la ricchezza esterna? Che importa la stima degli uomini e il loro oblio? Che cosa può importare la malattia o la salute? Se veramente il tuo bene, la tua vita è Dio stesso, Dio non ti manca. E in Dio non solo l'anima tua, ma anche il tuo corpo esulta e trova la pace. È difficile vivere questa vita religiosa e che pure deve essere l'impegno di ogni anima. Abbiamo scelto Dio: che Dio dunque sia il nostro tutto. Se Dio è il nostro tutto, nulla ci manca. Ci può mancare la stima degli uomini e il loro favore, ci può mancare il pane, la salute: Dio non ci manca perché Egli è l'Eterno.
Dio solo basta, diceva Santa Teresa. Non è un bastare che indichi la pura sufficienza; Dio non è soltanto il minimo necessario per tutta la vita. È il massimo, invece, della beatitudine, già ora. La gioia è solo dei poveri. La beatitudine è solo di chi di tutto si è spogliato per non avere che Dio.Di questo gioisce il mio cuore, esulta la mia anima. Non si tratta soltanto della pace. La pace è una cosa grande: indica in fondo la sazietà. Si parla di una sovrabbondanza. L'esultazione è come la spuma dello champagne, il bicchiere non lo contiene, spuma e trabocca. L'esultazione non è soltanto l'essere colmi della pace, è il traboccare della anima nella gioia. È la beatitudine del Cielo, non la pace.
San Benedetto parla di pace e anche il monachesimo e insiste più sulla sobrietà che sull'esultanza. Ma la Sacra Scrittura no. Non solo il Nuovo Testamento, anche l'Antico comanda la gioia. Ogni anima religiosa deve essere ubriaca di Dio. Dobbiamo tendere all'ebbrezza divina! Ricordate San Paolo? non parla soltanto di pace, di una pace che supera ogni sentimento: parla anche di una sovrabbondanza di gioia che si esprime in inni e canti spirituali. Parla di quella pura esultanza che è segno di una presenza del Regno, diviene segno di una anticipazione della beatitudine futura. Dipende da noi questa gioia? Certo! Dobbiamo essere poveri! Accettare la povertà, volere la povertà che è condizione di una beatitudine già presente perché è condizione di un possesso di Dio. Non dobbiamo nemmeno volere la povertà, dobbiamo volere Dio. Ma Dio non è Dio perché se Egli non è l'Unico, il Tutto. Non è il lavoro, non la cultura, non la sicurezza economica, non la salute: Dio! In modo che non sia legata all'anima a questi beni esteriori, i quali nella misura che si posseggono, anche ci rendono schiavi, esigono il contributo di un sacrificio, l'adorazione e il servizio; ma sono dovuti a Dio solo. A questa povertà radicale, affettiva dell'anima che ha scelto Dio solo, non può rispondere più che la gioia. La gioia anche nella tenebra, nel vuoto, nella aridità, nell'intima desolazione dell'anima. Se tu non vuoi che Dio, nulla è effettivamente può togliertelo.
Di questo gioisce il mio cuore, esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro. Dio trascende infinitamente il tuo corpo come il tuo spirito, ma donandosi Egli inebria ed esalta ugualmente l'anima e il corpo. Si pensi a Francesco d'Assisi, si pensi a Serafino di Sarov, si pensi al Beato Giovanni Ruysbroeck; tutto l'uomo viene come creato nuovamente in questo divino possesso. Non soltanto la vita ora è traboccante di gioia, ma c'è una gioia che non può essere compromessa da nessun fattore esterno; non solo dalla persecuzione mossa dagli uomini, non solo dalla malattia, ma nemmeno dalla morte.
L'anima religiosa nell'Antico Testamento non giunge alla intuizione della immortalità per una postulato filosofico: vi giunge per una esperienza religiosa. La comunione con Dio non può conoscere la morte, non può essere toccata dalla morte. Tu hai conosciuto Dio, tu non conoscerai più la morte, perché Dio è l'Eterno. Dio che si comunica a te, Dio col quale tu vivi, rende te immortale ed eterno. Per i greci non è una comunione con un dio personale che garantisce l'immortalità, una vita oltre la morte, ma il fatto che l'anima è di diversa natura dal corpo. Il corpo è soggetto alla corruzione, l'anima no, perché è spirituale. L'Antico Testamento non contesta il ragionamento dei filosofi ma ci dà la testimonianza di una esperienza religiosa che è già esperienza di immortalità. Se vivi in comunione con Lui, la morte stessa non ti tocca più. Non solo l'odio degli uomini, non solo la povertà; nulla ti tocca, la povertà non toglie nulla alla tua pace. L'odio degli uomini non turba la tua gioia, la morte stessa non ha potere su di te. Dio ti ha salvato, ti ha portato fuori da tutto. Tu vivi in Lui la sua medesima vita, possiedi in Lui un bene che è eterno. Perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Questi versetti debbono interpretarsi almeno in senso tipico in tal modo da annunciare la resurrezione del Cristo. San Pietro li cita a proposito di questa resurrezione. È un salmo messianico, il giusto è il Cristo. Ma anche ogni fedele e in qualche modo Cristo medesimo. Naturalmente il Servo di Jahvè, colui che nella povertà di ogni bene terreno, nella persecuzione degli uomini, divise una perfetta comunione con Dio, è Gesù. Per questo il salmo in a Gesù anche ha il suo adempimento perfetto. Ma come San Pietro cita queste parole del salmo a proposito della resurrezione del Cristo, così possono interpretarsi a proposito di ogni cristiano, nella misura che ogni cristiano è fedele e nella povertà di ogni cosa terrena possiede in Dio ogni suo bene come dice il salmo all'inizio.
Così nella misura che ogni anima possiede in Dio il vero suo bene, il bene unico e pieno, nella stessa misura l'anima anche sperimenta questa sua sicurezza e già vive la sua immortalità.
Mi indicherai il sentiero della vita. Dio apre al giusto il sentiero della vita. Dio gli dona gioia piena nella sua presenza. Non soltanto nel mondo futuro: il Salmista parla di quaggiù. Io pongo sempre innanzi a me il Signore. Già ora a l'anima vive davanti al volto di Dio, già ora e per sempre l'anima possiede in Dio la sua gioia: dolcezza senza fine alla tua destra.

Salmo 15

Salmo 15

Signore, chi abiterà nella tua tenda?
Chi dimorerà sul tuo santo monte?
Colui che cammina senza colpa,
agisce con giustizia e parla lealmente,
non dice calunnia con la lingua,
non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulto al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.
Anche se giura a suo danno, non cambia;
5 presta denaro senza fare usura,
e non accetta doni contro l'innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre.


Il salmo è ben modesto come componimento lirico: di un'estrema povertà letteraria, direi, ma di un grande insegnamento invece, per quello che riguarda Israele e noi.
È a forma di catechismo e ne ha la semplicità. L'orante domanda quali siano le condizioni per vivere nella casa di Dio, per dimorare nella tenda dell'Altissimo, per essere protetto dal Signore, perché abbia di lui misericordia e lo difenda. È una domanda cultuale e si aspetterebbero delle condizioni cultuali. Dimorare nella casa di Dio sotto l'ombra dell'Altissimo poteva essere soltanto, sembrerebbe, del sacerdote o comunque di colui che fedelmente adempie tutte le prescrizioni della legge e del culto: ma non vi è altro culto per Israele che la vita stessa nei suoi rapporti con gli altri: il vero culto è questo e a questo del resto ci richiama anche il Vangelo quando ci dice: "se tu vai a far la tua offerta e ti ricordi che un tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta e vai prima a riconciliarti con lui". La liturgia cristiana, e prima ancora la liturgia ebraica, non è vissuta nel Tempio, in rapporto con un idolo vano e muto, è vissuta nel rapporto dell'uomo con l'uomo, perché l'uomo all'uomo è suo Dio. Le parole sono della letteratura romana, "homo, homini deus", ma più che appartenere a una letteratura romana e pagana, sono, si direbbe, la sintesi di quello che è l'insegnamento profetico e di quello poi che è l'insegnamento cristiano.
E noi stessi cristiani dobbiamo ricordarci perché è anche per noi sussiste il pericolo di credere di poter vivere un rapporto con Dio, prescindendo da un nostro rapporto con gli altri, anche per noi sussiste il pericolo di credere che siamo anime pie se facciamo l'ora di adorazione davanti al Santissimo Sacramento, e poi manchiamo di carità verso i nostri fratelli. Un certo pietismo contamina anche la nostra vita religiosa, non potrà mai la pietà nostra individuale, la nostra preghiera, sostituire la carità fraterna, perché la pietà verso Dio non solo si dimostra vera se si congiunge a questa carità, ha la sua prova, ha la sua misura nella carità con gli altri, ma perché la pietà verso Dio deve avere come suo frutto questo rapporto che è l'effetto principale, fondamentale dell'Eucarestia. Il culto cristiano trova nell'Eucarestia il suo centro, trova nell'Eucarestia l'attuo suo fondamentale. Il frutto fondamentale dell'Eucarestia e l'unità dei cristiani; anche in questo, vedete, il pietismo degli ultimi secoli ha, non contaminato, ma diminuito estremamente il contenuto del mistero cristiano. Nei manuali di teologia si vede che il frutto dell'Eucarestia è una suavitas, una dulcedo interna, o è l'alimento della nostra vita di pietà, o è il rimedio ai mali quotidiani della nostra esistenza; noi ci dimentichiamo di quello che è il frutto fondamentale che san Paolo già dichiara nella lettera ai Corinti, l'edificazione del Corpo di Cristo, l'unità del Corpo di Cristo: ogni qualvolta si compie l'Eucarestia si crea la Chiesa di Dio, l'assemblea cristiana, la convocatio, gli uomini chiamati dalla divina Parola. Anche per noi cristiani, dunque, il rapporto con gli altri è la vera liturgia, la pietà personale deve terminare e deve manifestare la sua forza, esprimere la sua grandezza proprio nel rapporto degli uomini fra loro. Voi vedete qui (e in questo già, la religione cristica si oppone a tutte le religioni pagane) le condizioni di un culto, sono soltanto una morale sociale, prescrizioni di morale sociale.
A quello che qui dice il salmista possono essere aggiunte chissà quatte altro prescrizioni di morale sociale, si potrebbe dire che sono state scelte anche male, ma l'insegnamento fondamentale è questo, che il culto divino, le condizioni per vivere accetti a Dio, sono il rapporto che l'uomo ha con l'altro uomo, rapporto di giustizia, di carità. Qui non si parla troppo di carità, ma indubbiamente la giustizia che qui è supposta, che qui è inculcata, importa anche un minimo di carità, perché importa un minimo di volontà interiore, di rispetto dell'altro. Non vi è mai una perfetta giustizia che non implichi la carità, non è vero chesumma iustitia, summa iniquitas, una giustizia quando si parte dall'intimo non è soltanto un voler adempiere delle prescrizioni positive della legge, quando si parla all'intimo, quando implica il rispetto della altrui persona, quando esige una volontà di non nuocere, già per sé implica una certa carità, è già l'inizio, in fondo, dell'amore. D'altra parte il salmo non ci parla soltanto di una morale sociale considerandola in prescrizioni precise, di questo rapporto con gli altri; parla precisamente fin dall'inizio di questa disposizione interiore di integrità e di giustizia nei confronti degli altri: "Colui che cammina senza colpa, agisce con giustizia e parla lealmente. Sono tre prescrizioni che in fondo si riducono a una sola: parlare in verità. Essere veri vuol dire manifestare nei rapporti con gli altri quei sentimenti che noi conserviamo nell'intimo. Siccome non possiamo avere verso gli altri che un atteggiamento di giustizia e di rispetto, questo sentimento dobbiamo possederlo nel cuore. Questa è l'integrità della vita, questa è la fedeltà alla legge, questo è operare giustizia, secondo il salmista. Poi viene una esemplificazione che di per sé non è esaustiva, sono degli esempi, quegli esempi che potevano maggiormente interessare forse il mondo nel quale viveva il salmista: la corruzione dei potenti, far dei doni ai potenti, "le bustarelle" perché i potenti non osservassero la legge in favore del povero, in difesa dell'orfano e della vedova, ma piuttosto favorissero chi portava la "bustarella": è chiaro. È una esemplificazione che risponde dunque ad un dato stato sociale, a una condizione, che era propria nel regno di Giuda e del regno d'Israele quando sorsero i Profeti: effettivamente il salmo richiama in gran parte la morale giudaica: anche i profeti vedono che il culto di Dio implica necessariamente questi rapporti di umanità, di equanimità, equità e giustizia con gli altri. Che cosa vale il digiuno? Il tuo vero digiuno è sovvenire l'orfano e la vedova: "Se tu verrai incontro al povero, la tua giustizia brillerà come un sole", diranno il Profeta Isaia e il Profeta Michea, e a loro faranno eco gli altri Profeti, Osea e Geremia: "Che me ne faccio io dei vostri sacrifici, ho in uggia le vostre preghiere, il grasso degli animali mi è venuto a nausea, fate il bene, purificate il vostro cuore, non opprimete il vostro fratello, questo è il vero sacrificio gradito a Dio". Con questo il Signore vuole forse negare l'efficacia di un culto che Egli stesso ha prescritto? Nell'economia cristiana ora vorrebbe voler dire forse che il cristianesimo tutto si esaurisce in un rapporto sociale? Ma se fosse soltanto un rapporto sociale non saremmo nemmeno cristiani! Il vostro rapporto con gli altri è già un rapporto mistico non più sociale, siamo una sola cosa fra noi, io devo amare il mio prossimo come me stesso, perché il mio prossimo sono io, tutti siamo uno solo in Cristo. Vivere il mio rapporto con gli altri vuol dire vivere il mistero stesso cristiano in questa unità che tutti ci riassume nella Persona di Nostro Signore, nel suo Mistico Corpo. Nella Persona, dico, di Nostro Signore, non dico soltanto nel suo Mistico Corpo, perché san Tommaso d'Aquino arriva a questa affermazione, che tutti siamo una sola persona mistica; che cosa voglia dire nemmeno i teologi lo sanno, comunque è san Tommaso che lo dice, cioè l'unità di tutti noi in Cristo, è una unità non soltanto morale, è una unità mistica, ma in certo modo anche fisica, e, più grande dell'unione stessa fisica, è una unità di cui non abbiamo paragone quaggiù. In tanto ognuno di noi e nemico a sé stesso, in tanto la società umana è nemica a se stessa in quanto tutto e tutti non realizzano la loro unità col Signore, non sono che un unico Cristo, quel Cristo in cui non vi è più né barbaro o greco, né maschio né femmina, né uomo libero o schiavo". Uno solo, e san Paolo non dice ei come dice san Giovanni nel suo IV Vangelo, ma dice Eis; un solo uomo, non una sola cosa, un solo uomo noi siamo, questo è il mistero cristiano.
Nella misura che Egli ti sceglie, ti strappa dal mondo e ti mantiene nella tua solitudine, ti strappa dalla tua condizione umana, che ancora non ti introduce nel regno, rimani estraneo alla terra e Dio rimane egualmente estraneo a te, tutti i popoli ti opprimono e Dio rimane in silenzio, la vita umana per te rimane come legata e la vita divina non ti viene concessa. Senso di una solitudine e di un vuoto che diviene ogni giorno più grande nella misura che Dio ti porta nelle sue vie, nella misura che Egli ti strappa a te stesso sciogliendoti per iniziarti a una comunione con Lui che deve divenire sempre più intima. Ma la comunione con Lui ora la sperimenti come una morte, in una divisione da tutto, in un silenzio nel quale sembra affondare tutta la tua vita.
"Svegliati, perché dormi o Signore?" Quante volte l'anima sarebbe tentata di rivolgersi a Dio con le stesse parole, e noi dobbiamo sapere, questo almeno ci sia di conforto, che queste parole rimangono preghiera anche se sembrano bestemmia, che queste parole sono anzi la preghiera di un popolo scelto, eletto: Israele; sono l'espressione di un popolo che risponde con questo grido di angoscia alla propria elezione. Dobbiamo saperlo perché non ci inganni il nostro linguaggio. Molto spesso forse non è preghiera quella che noi crediamo preghiera, ed è preghiera proprio la nostra stanchezza, ed è preghiera proprio la nostra non rivolta, non ribellione, ma il nostro smarrimento, il nostro sgomento, la nostra paura, ed è preghiera la nostra sofferenza, onde l'anima non sa più capir nulla, e crede di essere abbandonata da Dio e dagli uomini e crede che per sé non esista più che la morte.

PREGHIERA DELLA COMUNITA' FRANCESCANA MARIANA: FRATERNITA' VANGELO & CARITA''

O Dio nostro Padre, che hai voluto che il Tuo Figlio Gesù si incarnasse nel grembo della Vergine Maria, ascolta la nostra preghiera. 
Tu ci hai rivelato lo splendore della disponibilità totale della Beata Vergine alla tua volontà, con l’annuncio dell’angelo Gabriele a diventare la Madre del tuo Figlio. 
Noi La veneriamo con il titolo di Maria Immacolata Regina della Pace Stella dell'Evangelizzazione, La riconosciamo tesoriera delle divine grazie e ci impegniamo a conoscerla e farla conoscere, ad amarla e farla amare come Madre. 
Il cammino preparatorio alla comunità francecsana - marianache  li trovi solleciti ad approfondire il Carisma del Fondatore che ha dedicato totalmente la sua vita al servizio della Chiesa, sullo stile dell’Eccomi di Maria. 
Il tuo Spirito doni la necessaria illuminazione per comprendere la tua volontà e operare col necessario discernimento nell’individuare le persone giuste, capaci di amare e guidare la Comunità. 
Fa’ che, ravvivati dal fuoco dello Spirito, gli Oblati possano prendere coscienza della missione della Chiesa, seguendo le indicazioni del Magistero, e possano portare ovunque il fuoco dello Spirito Santo. 
Te lo chiediamo per Gesù Cristo Nostro Signore e per la l'intercessione di Maria, la Madre del Divino Amore. Amen.

Il silenzio di Dio e il combattimento ineguale sembravano lasciare l'uomo solo nella sua miseria è, solo nella sua impossibilità di una salvezza.

Il silenzio di Dio e il combattimento ineguale sembravano lasciare l'uomo solo nella sua miseria è, solo nella sua impossibilità di una salvezza. Dio tace e tu vai contro di te un nemico estremamente forte che vuole la tua fine. Come l'uomo dunque può esprimere una salvezza? In nessun altro modo, fintanto che vive quaggiù, se non nell'atto della speranza, onde egli getta un ponte dall'abisso della miseria e della sofferenza a Dio.
E l'anima vive la salvezza nella sua stessa preghiera. Tutto ci sforza alla preghiera, e la preghiera e già l'inizio della salvezza, la sicurezza della vittoria. Non aspettarsi oggi di più: il fatto che tu preghi, il fatto che nulla può imprigionare il tuo spirito, ma anzi il fatto che il combattimento ti sforza a gridare la tua angoscia Dio, proprio questo è già per te espressione di vittoria, e già per te esperienza di salvezza: anche se Dio tace, anche se Dio sembra non volgere il suo Volto verso di te, effettivamente già la tua vita si illumina in una fede eroica, e sfuggi alla presa del mondo per implorare l'Eterno, per abbandonarti a Dio.

IL SIGNORE DELLA VITA

Salmo 13

Fino a quando, Signore,
continuerai a dimenticarmi?
Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?
Fino a quando nell'anima mia proverò affanni,
tristezza nel cuore ogni momento?
Fino a quando su di me trionferà il nemico?
Guarda, rispondimi, Signore mio Dio,
conserva la luce ai miei occhi,
perché non mi sorprenda il sonno della morte,
perché il mio nemico non dica: «L'ho vinto!»,
e non esultino i miei avversari quando vacillo.
Nella tua misericordia ho confidato.
Gioisca il mio cuore nella tua salvezza
e canti al Signore, che mi ha beneficato.
Quale realismo non traducono queste parole! È tutto il dramma della vita umana che in queste parole si esprime; di contro a questo dramma, il silenzio di Dio: fino a quando? L'anima sa di essere scelta da Dio, l'anima crede nel Suo amore per lei e l'anima si sente sola: pur assicurandola della sua protezione, pur avendola eletta fra tutte, Dio è come se la abbandonasse a tutte le forze del male.
La testimonianza di un'anima fedele a Dio è la persecuzione che ella deve soffrire, ella vive quaggiù in un mondo che le rimane nemico e, rimane in un mondo che non sarà mai la sua patria.
Si vivesse almeno nascosta, si vivesse almeno inosservata dagli altri, se potesse essa almeno essere dimenticata e passare attraverso questo esilio nel silenzio e nella pace!
Invece è proprio del mistero cristiano, che questi due mondi, il mondo del peccato e il mondo della santità, il mondo di Dio e il mondo del maligno, non siano estranei fra loro, non siano l'uno dall'altro separati e divisi ma in perpetua lotta, in una lotta drammatica in cui ogni potere sembra donato al male. Sembra che il bene non abbia alcuna protezione e di difesa. E così rimarrà sino alla fine, per ogni anima che Dio elegge e per tutta quanta la Chiesa. Guai se non ci fosse il segno della Croce che ci testimoniasse di non essere di questo mondo, ma di essere stati scelti da Dio. D'altra parte come può l'anima tollerare la croce, la sofferenza, la persecuzione, l'odio dei nemici? Che forse l'uomo non è stato creato per la gioia? che fosse l'uomo non è stato creato per la felicità? Come può accettare questo destino di sofferenza, di persecuzione, di umiliazione, di morte, senza sgomento, senza cadere quasi nella disperazione?
Fino a quando? L'anima non regge più, e Dio non interverrà che alla fine, quando non vi sarà più tempo: allora sarà l'ora di Dio, non prima. Fino a quando? Così questo gemito, questo grido dovrà alzarsi sempre finché l'anima non abbandoni questo mondo, finché la Chiesa intera non precipiti oltre l'economia presente, nella pace e nella gloria di Dio. Dio ci ha scelto, ci ha eletto, per poi di gettarci in mano a chi ci doveva perseguitare. Ci ha scelto: ma l'elezione divina al contrario di essere protezione e difesa, sembra piuttosto abbandonarsi a tutte le ingiustizie, a tutte le persecuzioni, all'odio, alla sofferenza, alla morte. Dio ci ha scelto soltanto per caricarci di pena. È così? No, non è così. L'elezione divina ti strappa alla tua vita tranquilla, alla tua vita ordinaria che potrebbe essere una vita di pace: nella misura che Dio ti elegge ti getta anche nelle fauci del dragone; nella misura che Dio ti sceglie, nella stessa misura ti abbandona alla morte; Egli sembra sceglierti soltanto per il sacrificio. E tu devi accettare la volontà di Dio come Gesù accetto il calice che il Padre gli aveva preparato.
Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? È come se Dio dopo averci scelto, si fosse dimenticato di noi. In realtà Egli si ricorda di noi, l'elezione persiste, ma persiste in questo: nel volerci condannare alla morte. Se Gesù deve sopportare la sua passione, deve accettare la sua morte, Egli non l'accetta soltanto in quanto è un'offesa, in quanto è una condanna che gli viene dal mondo, ma in quanto è anche la volontà del Padre, in quanto ha voluto così Colui che Egli ama e Colui dal Quale Egli è amato di un amore immenso.
Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Per l'esperienza umana è come se veramente Dio ci avesse abbandonato, come se si fosse allontanato da noi, come se Dio oltre che averci dimenticato, avesse volto la faccia da noi. Il Padre sembra essere divenuto nemico. Questa l'esperienza dell'anima. Non potrebbe essere altro che questa: se non fosse questa non saremmo più cristiani, perché questa è stata l'esperienza religiosa di Gesù. Padre, se è possibile allontana da me questo calice, peraltro non si faccia la mia, ma la tua volontà. Sulla croce questa preghiera che in fondo supponeva ancora un rapporto d'amore, diviene un grido che sembra disperazione e bestemmia: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? È il Figlio di Dio che grida così.
Che meraviglia che sia questo il grido anche di tutti coloro che debbano vivere lo stesso mistero, che debbono partecipare alla medesima morte? Fino a quando? Dio è come non fosse: tu ti sei donato a Lui, tu hai sacrificato tutta la tua vita per Lui, e in cambio per ricompensa, non hai che questo silenzio da parte di Dio, non hai che l'odio, o almeno la persecuzione da parte degli uomini, non hai da ogni parte che pena e dolore. Fino a quando? L'anima che era stata creata per la felicità e la beatitudine, è invece totalmente abbandonata dalla sofferenza e alla morte, deve sentirsi dilaniata, schiacciata, mangiata, e questo sino alla fine.
Chi potrebbe reggere senza aiuto divino? Chi potrebbe reggere senza che Dio non vivesse in lui? L'anima può pensare di essere scordata, può pensare che Dio abbia tolto da lei la sua faccia. In realtà è proprio nella sua passione che Dio si manifesta presente, operante divinamente e divinamente creatore, perché l'anima non potrebbe reggere a tanto peso, perché l'anima non potrebbe sostenere così grave destino.
Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? L'anima crede di essere sola contro tutto in un mondo nemico, non soltanto indifferente, ma ostile. Ma l'accanimento stesso del mondo contro questa anima non è forse una dimostrazione, il segno, anzi, che nella sua solitudine essa ha una forza che il mondo non riesce a sgominare, che l'anima nella sua solitudine ha una potenza contro la quale tutte le potenze del mondo non hanno potere?
Fino a quando? Dice l'anima. E l'anima deve saperlo, e la Chiesa deve saperlo. Il mistero di Dio che si fa presente nel mondo è il mistero della morte di croce e si fa presente in te, nella tua medesima morte. D'altra parte è questa la realtà della sofferenza umana; l'anima pur conoscendo il mistero non può non pregare per avere un sollievo in tanta disdetta, ché la sofferenza non sarebbe più sofferenza se l'anima pur mantenendo nell'intimo suo fondo la fede nell'elezione divina e nell'amore di Dio, non si sentisse sgomenta e smarrita, non si sentisse all'estremo delle sue forze, non dovesse patire in quello che soffre in una estrema agonia.
Fino a quando nell'anima mia proverò affanni... Ecco, ora l'orante non ha più il coraggio di volgersi a Dio, di gridare a Dio la sua sofferenza. Fino a quando nell'anima mia proverò affanni, tristezza nel cuore ogni momento? Che cosa è questa tristezza? Che cosa è questa dimenticanza di Dio? Andiamo più in fondo. Quale ragione ha questa sofferenza? Perché l'anima geme? Perché grida a un Dio che tace, a un Dio che non risponde? Finalmente lo dice; sembra che il salmista finora non abbia avuto nemmeno il coraggio di dirlo: Fino a quando su di me trionferà il nemico? Come la vita religiosa è un rapporto drammatico con Dio, così è anche un rapporto drammatico col maligno. Ma come Dio si fa presente nella vita dell'uomo soprattutto attraverso le persone che ce lo rappresentano, e ognuno di noi è per l'altro il Signore, così anche il maligno si fa presente ed opera, e combatte e perseguita e opprime i servi di Dio attraverso altri uomini. Certo Dio si rivela prima di tutto attraverso la creazione; la prima rivelazione di Dio è la creazione medesima, ma in un modo più intimo e più profondo Dio si rivela attraverso l'avvenimento: la storia di Israele, e finalmente, nel Cristo, nell'uomo Gesù.
Così il maligno si rivela ed opera attraverso la creazione: lo sconvolgimento degli elementi, la malattia, la morte; ma si rivela ancora di più negli avvenimenti terrestri, nella storia del mondo, storia di violenza, di oppressione, di morte; si rivela negli uomini stessi che ti combattono magari senza saperlo, ti perseguitano e operano la tua distruzione col sorriso sul labbro, senza rendersi conto del male che fanno. Forse questi uomini sono anch'essi servi di Dio, ma non sono così pienamente purificati da non poter essere anche al servizio del maligno. Dio ci ha comandato di amarci, ma quanto spesso il vivere insieme fra gli uomini è per gli uni e per gli altri motivo di pena, di sofferenza! Forse solo l'anima che fosse liberata da ogni residuo di gelosia, di invidia, di orgoglio, di sensualità, solo un'anima che fosse veramente e pienamente purificata potrebbe non essere mai per un'altra motivo di pena. Ma quante sono le anime così purificate?
La carità fraterna è sempre esercizio di pazienza, di dolcezza, di umiltà, perché dagli altri non si riceve tanta gioia, quanto riceviamo dolore. Il dolore del mondo, la sofferenza dell'uomo, ha la sua sorgente nella persecuzione. Non si parla nel Salmo di una persecuzione mossa alla Chiesa, ma di quella che è mossa contro la vita di un singolo uomo. Quanta parte vi ha nella pena di ognuno, nel dolore che è il tessuto dell'esistenza dell'uomo, l'incomprensione da parte degli altri, la durezza di cuore, l'egoismo che ci fa essere ingiusti verso i fratelli, ci disinteressa di loro, mentre avremmo magari responsabilità verso queste anime. Mentre ci dovremmo amare quaggiù nella vita presente, ed essere gli uni per gli altri motivo di aiuto e di gioia, siamo invece gli uni agli altri motivo di dolore, di sofferenza. Chiediamo al Signore che la nostra sofferenza sia santa, sia redentrice, che proprio attraverso il nostro dolore, il male degli altri venga purificato e distrutto, che proprio attraverso la nostra sofferenza tutta la colpa umana debba sciogliersi e non rimanere più.
Guarda, rispondimi, Signore mio Dio! alla sofferenza dell'anima, alla angoscia, all'agonia estrema in cui l'anima giace, Dio deve guardare: l'anima non chiede altro che questo, il Suo sguardo, la Sua parola. Il salmista chiedeva e in qualche modo esigeva che lo sguardo di Dio, la parola divina dovesse sollevare l'anima sua prima della morte. Per un cristiano questo intervento può essere rimandato: per gli Ebrei e che non speravano nell'immortalità dell'anima, Dio doveva intervenire in qualche modo avanti la morte; per noi Dio può intervenire anche dopo la morte, noi possiamo continuare nell'agonia sino alla fine. Anzi l'elezione divina fa sì che l'anima debba partecipare sino in fondo alla morte del Cristo. Nei suoi disegni divini Egli vuole che l'anima debba soffrire questa dimenticanza da parte di Dio, da parte degli uomini e da parte del mondo: persecuzione rovina fino alla morte. L'ora di Dio viene dopo. Ma pur nella persecuzione e nell'angoscia l'anima in Dio possiede anche oggi la pace. Conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte, perché il mio nemico non dica: «L'ho vinto!» La persecuzione, l'odio, tutta questa marea di male che sale e sembra sommergere l'uomo, tutta questa marea non ha capacità di sommergerlo, di sopraffarlo; l'anima, almeno nel suo grido, almeno nella sua disperazione che è divenuta preghiera, si erge al di sopra del male. Il nemico non la sopraffà. La vittoria ultima rimane di colui che soffre ed è perseguitato, di colui che ha preso sopra di sé il peso del mondo.
Non esultino i miei avversari quando vacillo. Egli non cadrà: ecco la sola cosa che l'anima ottiene, il segno di una protezione divina, in cui si manifesta la partecipazione che l'anima vive al mistero del Cristo, al mistero di un Dio che muore e nella sua morte vince il male del mondo. Il cristiano non cade: Nella tua misericordia ho confidato. È questo non cadere, è questo non è essere sopraffatto, la risposta divina alla preghiera dell'uomo. Dio non ci solleva dei nostri pesi, non elimina la sofferenza: l'unica vittoria è di non essere sconfitti, è rimanere vittime immolate sopra all'altare fino all'estremo, perché se fino all'estremo l'anima rimane nella preghiera, fino all'estremo il male del mondo per l'uomo si converte in amore, l'odio si converte in pazienza. Ed è questo il mistero più grande. Tutto il male del mondo che grava su uomo e passa attraverso il suo cuore, si converte attraverso il cuore del perseguitato, attraverso colui che agonizza sotto tanto peso, in un grido, in una implorazione di amore.
Gioisca il mio cuore nella tua salvezza. È una speranza ed è già una presenza: Dio vive nel suo cuore e il male non può sopraffarlo, non può trasformarlo; non trasforma l'oppresso nell'oppressore. Egli rimane la vittima.
Gioisca il mio cuore nella tua salvezza e canti al Signore, che mi ha beneficato. Il salmista di quali beni parla? Forse sperava davvero dopo essere spogliato dei suoi beni, di ottenere altri beni da Dio. Ma il cristiano non può aspettare altro bene che questo: Dio stesso! Ma Dio è un bene che nessuno vorrebbe, perché il possesso di Dio è uguale alla morte. Per questo nel possesso di Dio l'anima vive solo nella speranza il ringraziamento e la lode, mentre così drammatico e vivo continua il grido della angoscia presente: Fino a quando, Signore?
* * * * *
In questo Salmo brevissimo si ripete in pochi versi il contenuto della maggior parte delle lamentazioni individuali che sono così numerose nel Salterio.
Al primo lamento iniziale segue la confessione del proprio stato di desolazione, di tristezza, finalmente la preghiera al Signore, e, nella speranza dell'esaudimento, la lode Dio che ha salvato l'orante.
I Salmi di lamentazione hanno una gran parte nel Salterio, perché la condizione dell'uomo è questa, quaggiù: una condizione di pena, di sofferenza, di sgomento, e non vi è altra salvezza per l'uomo che il ricorso Dio.
Eppure la preghiera non sembra ascoltata giammai, perché continuamente si ripete. Perché l'uomo si svolge Dio se la tristezza continua, se la pena rimane la condizione dell'uomo che vive quaggiù sulla terra?
È vero che al termine di questi Salmi di lamentazione abitualmente vi è già l'inizio della lode e del ringraziamento Dio, ma noi possiamo pensare che, dopo poche parole che manifestano tutta l'ambascia dell'anima, subito intervenga la Onnipotenza divina a sollevare il misero dalla sua pena? La lode e già come uno sforzare Iddio a venire in soccorso? È l'espressione di una fede eroica che deve provocare l'intervento di Dio nella vita del povero? È una anticipazione profetica di quello che sarà domani la condizione dell'uomo che si sarà rivolto Dio?
Certo, questa rimane la condizione umana: una condizione di sofferenza, di umiliazione, di morte. Certo, questa è la esperienza comune dell'uomo: il sentirsi senza difesa in un mondo nemico; certo, questa è l'esperienza comune dell'uomo: il silenzio di Dio.
Dio è il tuo Salvatore, come era già il Salvatore di Israele; Dio è Colui che ti ama, eppure Egli ti abbandona alla pena, alla sofferenza, all'umiliazione: sembra abbandonarti ad ogni sconfitta. Dio non rivela più e il suo Volto a colui che tuttavia gli è fedele. Il silenzio di Dio! Quale tema di meditazione è per ogni anima religiosa!
La preghiera è un grido dell'uomo, un grido tuttavia che non riesce a vincere questo silenzio. L'uomo si dibatte vanamente: Dio tace. Eppure tu devi credere che Egli ti ama, eppure devi credere che egli è il tuo Salvatore; tutta la vita dell'uomo non è che questa fede eroica, l'abbandono in un Dio che sembra essere assente, in un Dio che sembra non interessarsi di te. Dio vivrà in te nell'alimentare questa tua fiducia, nel darti forza perché la tua preghiera salga fino a Lui: è nella tua preghiera che Egli vive, già nella tua preghiera è la risposta. L'uomo, assediato, premuto da ogni parte dei nemici visibili e invisibili, riconosce un alleato in Dio e a Lui si affida; premuto da ogni parte da nemici visibili invisibili, sfugge alla loro presa precisamente nel suo colloquio con Colui che è l'Eterno.
Questa è la vittoria dell'uomo: i mali del mondo lo sforzano ad uscire dal mondo per entrare in un colloquio con Dio. Colui con il quale entri in comunicazione non è l'uomo che chi è vicino, non sono le cose, ma al di fuori del mondo, al di là di ogni uomo, è Colui che è immortale. La sofferenza ci obbliga alla preghiera, e nella preghiera l'uomo già sfugge alla sofferenza perché sfugge a questo mondo per entrare in un colloquio con Dio; la sofferenza indubbiamente ci attanaglia, ma nella misura che la sofferenza ci induce alla preghiera, la preghiera stessa e già la liberazione, è già l'atto col quale l'anima sfugge alla prigionia del male per entrare in comunione con Dio.
Un altro tema del Salmo è la vita come combattimento. La vita dell'uomo non è soltanto pena, ma è lotta, oppressione da parte di violenti, combattimento ineguale, ingiusto da parte dei malvagi. Non soltanto siamo in un mondo che ci ignora, siamo in un mondo che ci è nemico. Abbiamo questa percezione? Tutto ti può essere nemico, perché vi è un nemico che usa di tutto per andare contro di te. Ci rendiamo conto che la vita dell'uomo è un combattimento di proporzioni gigantesche, un combattimento che ha un carattere cosmico? Il Salmista parla di un nemico: Fino a quando su di me trionferà il nemico? "Il nemico": non si tratta di tanti nemici, ma di uno solo, ma questo uno vale per tutti. Il nemico è colui che è "il principe di questo mondo", e tutte quante le cose ubbidiscono alla sua volontà di nuocerti, di attentare alla tua vita.
Come l'uomo non potrebbe sentirsi smarrito? Egli vede, egli sente che la sua vita è in balia di una potenza stragrande che altro non vuole se non l'oppressione dell'uomo, la sua sconfitta, la sua morte. Tale è la potenza di questo nemico che umanamente non vi è scampo per te.
Fino a quando su di me trionferà il nemico? Dunque, egli ha già vinto? Si noti il carattere drammatico di questo linguaggio, che sdegna il chiaroscuro e dà l'impressione di una forza nemica soverchiante. L'orante già soffre la sua umiliazione, l'orante già è attanagliato dallo sgomento della morte.
Poi, subito dopo, in un passaggio felicissimo, quello che l'anima spera già lo possiede, e nella sua salvezza l'anima già celebra il trionfo di Dio sui suoi nemici. Dalla lamentazione così l'orante si innalza all'inno, alla lode al Signore.
Guarda, rispondimi, Signore mio Dio... L'accavallarsi delle parole che si ripetono dice la concitazione dell'anima che non trova altro rifugio che nel Signore. Conserva la luce ai miei occhi: la tenebra è segno di morte. E l'anima chiede una speranza: perché il mio nemico non dica: «L'ho vinto!» Dunque non si era esaltato ancora sopra di lui, ma era tanta la potenza dell'odio che l'orante aveva come sperimentato già la sua morte; ora invece, rivolgendosi a Dio, la morte si allontana, e il nemico, che già cantava vittoria, ora non la canta più.
In queste parole si innalza il canto di tutta la Chiesa, la preghiera supplice di tutta quanta l'umanità che sfugge, nel combattimento tremendo, alla sua morte. Perché il mio nemico non dica: «L'ho vinto!» Così l'umanità, nel grido gioioso della sua speranza, esce dalle prese dell'avversario, sfugge alla sua prigionia.
Il silenzio di Dio e il combattimento ineguale sembravano lasciare l'uomo solo nella sua miseria è, solo nella sua impossibilità di una salvezza. Dio tace e tu vai contro di te un nemico estremamente forte che vuole la tua fine. Come l'uomo dunque può esprimere una salvezza? In nessun altro modo, fintanto che vive quaggiù, se non nell'atto della speranza, onde egli getta un ponte dall'abisso della miseria e della sofferenza a Dio.
E l'anima vive la salvezza nella sua stessa preghiera. Tutto ci sforza alla preghiera, e la preghiera e già l'inizio della salvezza, la sicurezza della vittoria. Non aspettarsi oggi di più: il fatto che tu preghi, il fatto che nulla può imprigionare il tuo spirito, ma anzi il fatto che il combattimento ti sforza a gridare la tua angoscia Dio, proprio questo è già per te espressione di vittoria, e già per te esperienza di salvezza: anche se Dio tace, anche se Dio sembra non volgere il suo Volto verso di te, effettivamente già la tua vita si illumina in una fede eroica, e sfuggi alla presa del mondo per implorare l'Eterno, per abbandonarti a Dio.

Salmo 13

Salmo 13

Fino a quando, Signore,
continuerai a dimenticarmi?
Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?
Fino a quando nell'anima mia proverò affanni,
tristezza nel cuore ogni momento?
Fino a quando su di me trionferà il nemico?
Guarda, rispondimi, Signore mio Dio,
conserva la luce ai miei occhi,
perché non mi sorprenda il sonno della morte,
perché il mio nemico non dica: «L'ho vinto!»,
e non esultino i miei avversari quando vacillo.
Nella tua misericordia ho confidato.
Gioisca il mio cuore nella tua salvezza
e canti al Signore, che mi ha beneficato.
Quale realismo non traducono queste parole! È tutto il dramma della vita umana che in queste parole si esprime; di contro a questo dramma, il silenzio di Dio: fino a quando? L'anima sa di essere scelta da Dio, l'anima crede nel Suo amore per lei e l'anima si sente sola: pur assicurandola della sua protezione, pur avendola eletta fra tutte, Dio è come se la abbandonasse a tutte le forze del male.
La testimonianza di un'anima fedele a Dio è la persecuzione che ella deve soffrire, ella vive quaggiù in un mondo che le rimane nemico e, rimane in un mondo che non sarà mai la sua patria.
Si vivesse almeno nascosta, si vivesse almeno inosservata dagli altri, se potesse essa almeno essere dimenticata e passare attraverso questo esilio nel silenzio e nella pace!
Invece è proprio del mistero cristiano, che questi due mondi, il mondo del peccato e il mondo della santità, il mondo di Dio e il mondo del maligno, non siano estranei fra loro, non siano l'uno dall'altro separati e divisi ma in perpetua lotta, in una lotta drammatica in cui ogni potere sembra donato al male. Sembra che il bene non abbia alcuna protezione e di difesa. E così rimarrà sino alla fine, per ogni anima che Dio elegge e per tutta quanta la Chiesa. Guai se non ci fosse il segno della Croce che ci testimoniasse di non essere di questo mondo, ma di essere stati scelti da Dio. D'altra parte come può l'anima tollerare la croce, la sofferenza, la persecuzione, l'odio dei nemici? Che forse l'uomo non è stato creato per la gioia? che fosse l'uomo non è stato creato per la felicità? Come può accettare questo destino di sofferenza, di persecuzione, di umiliazione, di morte, senza sgomento, senza cadere quasi nella disperazione?
Fino a quando? L'anima non regge più, e Dio non interverrà che alla fine, quando non vi sarà più tempo: allora sarà l'ora di Dio, non prima. Fino a quando? Così questo gemito, questo grido dovrà alzarsi sempre finché l'anima non abbandoni questo mondo, finché la Chiesa intera non precipiti oltre l'economia presente, nella pace e nella gloria di Dio. Dio ci ha scelto, ci ha eletto, per poi di gettarci in mano a chi ci doveva perseguitare. Ci ha scelto: ma l'elezione divina al contrario di essere protezione e difesa, sembra piuttosto abbandonarsi a tutte le ingiustizie, a tutte le persecuzioni, all'odio, alla sofferenza, alla morte. Dio ci ha scelto soltanto per caricarci di pena. È così? No, non è così. L'elezione divina ti strappa alla tua vita tranquilla, alla tua vita ordinaria che potrebbe essere una vita di pace: nella misura che Dio ti elegge ti getta anche nelle fauci del dragone; nella misura che Dio ti sceglie, nella stessa misura ti abbandona alla morte; Egli sembra sceglierti soltanto per il sacrificio. E tu devi accettare la volontà di Dio come Gesù accetto il calice che il Padre gli aveva preparato.
Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? È come se Dio dopo averci scelto, si fosse dimenticato di noi. In realtà Egli si ricorda di noi, l'elezione persiste, ma persiste in questo: nel volerci condannare alla morte. Se Gesù deve sopportare la sua passione, deve accettare la sua morte, Egli non l'accetta soltanto in quanto è un'offesa, in quanto è una condanna che gli viene dal mondo, ma in quanto è anche la volontà del Padre, in quanto ha voluto così Colui che Egli ama e Colui dal Quale Egli è amato di un amore immenso.
Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Per l'esperienza umana è come se veramente Dio ci avesse abbandonato, come se si fosse allontanato da noi, come se Dio oltre che averci dimenticato, avesse volto la faccia da noi. Il Padre sembra essere divenuto nemico. Questa l'esperienza dell'anima. Non potrebbe essere altro che questa: se non fosse questa non saremmo più cristiani, perché questa è stata l'esperienza religiosa di Gesù. Padre, se è possibile allontana da me questo calice, peraltro non si faccia la mia, ma la tua volontà. Sulla croce questa preghiera che in fondo supponeva ancora un rapporto d'amore, diviene un grido che sembra disperazione e bestemmia: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? È il Figlio di Dio che grida così.
Che meraviglia che sia questo il grido anche di tutti coloro che debbano vivere lo stesso mistero, che debbono partecipare alla medesima morte? Fino a quando? Dio è come non fosse: tu ti sei donato a Lui, tu hai sacrificato tutta la tua vita per Lui, e in cambio per ricompensa, non hai che questo silenzio da parte di Dio, non hai che l'odio, o almeno la persecuzione da parte degli uomini, non hai da ogni parte che pena e dolore. Fino a quando? L'anima che era stata creata per la felicità e la beatitudine, è invece totalmente abbandonata dalla sofferenza e alla morte, deve sentirsi dilaniata, schiacciata, mangiata, e questo sino alla fine.
Chi potrebbe reggere senza aiuto divino? Chi potrebbe reggere senza che Dio non vivesse in lui? L'anima può pensare di essere scordata, può pensare che Dio abbia tolto da lei la sua faccia. In realtà è proprio nella sua passione che Dio si manifesta presente, operante divinamente e divinamente creatore, perché l'anima non potrebbe reggere a tanto peso, perché l'anima non potrebbe sostenere così grave destino.
Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? L'anima crede di essere sola contro tutto in un mondo nemico, non soltanto indifferente, ma ostile. Ma l'accanimento stesso del mondo contro questa anima non è forse una dimostrazione, il segno, anzi, che nella sua solitudine essa ha una forza che il mondo non riesce a sgominare, che l'anima nella sua solitudine ha una potenza contro la quale tutte le potenze del mondo non hanno potere?
Fino a quando? Dice l'anima. E l'anima deve saperlo, e la Chiesa deve saperlo. Il mistero di Dio che si fa presente nel mondo è il mistero della morte di croce e si fa presente in te, nella tua medesima morte. D'altra parte è questa la realtà della sofferenza umana; l'anima pur conoscendo il mistero non può non pregare per avere un sollievo in tanta disdetta, ché la sofferenza non sarebbe più sofferenza se l'anima pur mantenendo nell'intimo suo fondo la fede nell'elezione divina e nell'amore di Dio, non si sentisse sgomenta e smarrita, non si sentisse all'estremo delle sue forze, non dovesse patire in quello che soffre in una estrema agonia.
Fino a quando nell'anima mia proverò affanni... Ecco, ora l'orante non ha più il coraggio di volgersi a Dio, di gridare a Dio la sua sofferenza. Fino a quando nell'anima mia proverò affanni, tristezza nel cuore ogni momento? Che cosa è questa tristezza? Che cosa è questa dimenticanza di Dio? Andiamo più in fondo. Quale ragione ha questa sofferenza? Perché l'anima geme? Perché grida a un Dio che tace, a un Dio che non risponde? Finalmente lo dice; sembra che il salmista finora non abbia avuto nemmeno il coraggio di dirlo: Fino a quando su di me trionferà il nemico? Come la vita religiosa è un rapporto drammatico con Dio, così è anche un rapporto drammatico col maligno. Ma come Dio si fa presente nella vita dell'uomo soprattutto attraverso le persone che ce lo rappresentano, e ognuno di noi è per l'altro il Signore, così anche il maligno si fa presente ed opera, e combatte e perseguita e opprime i servi di Dio attraverso altri uomini. Certo Dio si rivela prima di tutto attraverso la creazione; la prima rivelazione di Dio è la creazione medesima, ma in un modo più intimo e più profondo Dio si rivela attraverso l'avvenimento: la storia di Israele, e finalmente, nel Cristo, nell'uomo Gesù.
Così il maligno si rivela ed opera attraverso la creazione: lo sconvolgimento degli elementi, la malattia, la morte; ma si rivela ancora di più negli avvenimenti terrestri, nella storia del mondo, storia di violenza, di oppressione, di morte; si rivela negli uomini stessi che ti combattono magari senza saperlo, ti perseguitano e operano la tua distruzione col sorriso sul labbro, senza rendersi conto del male che fanno. Forse questi uomini sono anch'essi servi di Dio, ma non sono così pienamente purificati da non poter essere anche al servizio del maligno. Dio ci ha comandato di amarci, ma quanto spesso il vivere insieme fra gli uomini è per gli uni e per gli altri motivo di pena, di sofferenza! Forse solo l'anima che fosse liberata da ogni residuo di gelosia, di invidia, di orgoglio, di sensualità, solo un'anima che fosse veramente e pienamente purificata potrebbe non essere mai per un'altra motivo di pena. Ma quante sono le anime così purificate?
La carità fraterna è sempre esercizio di pazienza, di dolcezza, di umiltà, perché dagli altri non si riceve tanta gioia, quanto riceviamo dolore. Il dolore del mondo, la sofferenza dell'uomo, ha la sua sorgente nella persecuzione. Non si parla nel Salmo di una persecuzione mossa alla Chiesa, ma di quella che è mossa contro la vita di un singolo uomo. Quanta parte vi ha nella pena di ognuno, nel dolore che è il tessuto dell'esistenza dell'uomo, l'incomprensione da parte degli altri, la durezza di cuore, l'egoismo che ci fa essere ingiusti verso i fratelli, ci disinteressa di loro, mentre avremmo magari responsabilità verso queste anime. Mentre ci dovremmo amare quaggiù nella vita presente, ed essere gli uni per gli altri motivo di aiuto e di gioia, siamo invece gli uni agli altri motivo di dolore, di sofferenza. Chiediamo al Signore che la nostra sofferenza sia santa, sia redentrice, che proprio attraverso il nostro dolore, il male degli altri venga purificato e distrutto, che proprio attraverso la nostra sofferenza tutta la colpa umana debba sciogliersi e non rimanere più.
Guarda, rispondimi, Signore mio Dio! alla sofferenza dell'anima, alla angoscia, all'agonia estrema in cui l'anima giace, Dio deve guardare: l'anima non chiede altro che questo, il Suo sguardo, la Sua parola. Il salmista chiedeva e in qualche modo esigeva che lo sguardo di Dio, la parola divina dovesse sollevare l'anima sua prima della morte. Per un cristiano questo intervento può essere rimandato: per gli Ebrei e che non speravano nell'immortalità dell'anima, Dio doveva intervenire in qualche modo avanti la morte; per noi Dio può intervenire anche dopo la morte, noi possiamo continuare nell'agonia sino alla fine. Anzi l'elezione divina fa sì che l'anima debba partecipare sino in fondo alla morte del Cristo. Nei suoi disegni divini Egli vuole che l'anima debba soffrire questa dimenticanza da parte di Dio, da parte degli uomini e da parte del mondo: persecuzione rovina fino alla morte. L'ora di Dio viene dopo. Ma pur nella persecuzione e nell'angoscia l'anima in Dio possiede anche oggi la pace. Conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte, perché il mio nemico non dica: «L'ho vinto!» La persecuzione, l'odio, tutta questa marea di male che sale e sembra sommergere l'uomo, tutta questa marea non ha capacità di sommergerlo, di sopraffarlo; l'anima, almeno nel suo grido, almeno nella sua disperazione che è divenuta preghiera, si erge al di sopra del male. Il nemico non la sopraffà. La vittoria ultima rimane di colui che soffre ed è perseguitato, di colui che ha preso sopra di sé il peso del mondo.
Non esultino i miei avversari quando vacillo. Egli non cadrà: ecco la sola cosa che l'anima ottiene, il segno di una protezione divina, in cui si manifesta la partecipazione che l'anima vive al mistero del Cristo, al mistero di un Dio che muore e nella sua morte vince il male del mondo. Il cristiano non cade: Nella tua misericordia ho confidato. È questo non cadere, è questo non è essere sopraffatto, la risposta divina alla preghiera dell'uomo. Dio non ci solleva dei nostri pesi, non elimina la sofferenza: l'unica vittoria è di non essere sconfitti, è rimanere vittime immolate sopra all'altare fino all'estremo, perché se fino all'estremo l'anima rimane nella preghiera, fino all'estremo il male del mondo per l'uomo si converte in amore, l'odio si converte in pazienza. Ed è questo il mistero più grande. Tutto il male del mondo che grava su uomo e passa attraverso il suo cuore, si converte attraverso il cuore del perseguitato, attraverso colui che agonizza sotto tanto peso, in un grido, in una implorazione di amore.
Gioisca il mio cuore nella tua salvezza. È una speranza ed è già una presenza: Dio vive nel suo cuore e il male non può sopraffarlo, non può trasformarlo; non trasforma l'oppresso nell'oppressore. Egli rimane la vittima.
Gioisca il mio cuore nella tua salvezza e canti al Signore, che mi ha beneficato. Il salmista di quali beni parla? Forse sperava davvero dopo essere spogliato dei suoi beni, di ottenere altri beni da Dio. Ma il cristiano non può aspettare altro bene che questo: Dio stesso! Ma Dio è un bene che nessuno vorrebbe, perché il possesso di Dio è uguale alla morte. Per questo nel possesso di Dio l'anima vive solo nella speranza il ringraziamento e la lode, mentre così drammatico e vivo continua il grido della angoscia presente: Fino a quando, Signore?
* * * * *
In questo Salmo brevissimo si ripete in pochi versi il contenuto della maggior parte delle lamentazioni individuali che sono così numerose nel Salterio.
Al primo lamento iniziale segue la confessione del proprio stato di desolazione, di tristezza, finalmente la preghiera al Signore, e, nella speranza dell'esaudimento, la lode Dio che ha salvato l'orante.
I Salmi di lamentazione hanno una gran parte nel Salterio, perché la condizione dell'uomo è questa, quaggiù: una condizione di pena, di sofferenza, di sgomento, e non vi è altra salvezza per l'uomo che il ricorso Dio.
Eppure la preghiera non sembra ascoltata giammai, perché continuamente si ripete. Perché l'uomo si svolge Dio se la tristezza continua, se la pena rimane la condizione dell'uomo che vive quaggiù sulla terra?
È vero che al termine di questi Salmi di lamentazione abitualmente vi è già l'inizio della lode e del ringraziamento Dio, ma noi possiamo pensare che, dopo poche parole che manifestano tutta l'ambascia dell'anima, subito intervenga la Onnipotenza divina a sollevare il misero dalla sua pena? La lode e già come uno sforzare Iddio a venire in soccorso? È l'espressione di una fede eroica che deve provocare l'intervento di Dio nella vita del povero? È una anticipazione profetica di quello che sarà domani la condizione dell'uomo che si sarà rivolto Dio?
Certo, questa rimane la condizione umana: una condizione di sofferenza, di umiliazione, di morte. Certo, questa è la esperienza comune dell'uomo: il sentirsi senza difesa in un mondo nemico; certo, questa è l'esperienza comune dell'uomo: il silenzio di Dio.
Dio è il tuo Salvatore, come era già il Salvatore di Israele; Dio è Colui che ti ama, eppure Egli ti abbandona alla pena, alla sofferenza, all'umiliazione: sembra abbandonarti ad ogni sconfitta. Dio non rivela più e il suo Volto a colui che tuttavia gli è fedele. Il silenzio di Dio! Quale tema di meditazione è per ogni anima religiosa!
La preghiera è un grido dell'uomo, un grido tuttavia che non riesce a vincere questo silenzio. L'uomo si dibatte vanamente: Dio tace. Eppure tu devi credere che Egli ti ama, eppure devi credere che egli è il tuo Salvatore; tutta la vita dell'uomo non è che questa fede eroica, l'abbandono in un Dio che sembra essere assente, in un Dio che sembra non interessarsi di te. Dio vivrà in te nell'alimentare questa tua fiducia, nel darti forza perché la tua preghiera salga fino a Lui: è nella tua preghiera che Egli vive, già nella tua preghiera è la risposta. L'uomo, assediato, premuto da ogni parte dei nemici visibili e invisibili, riconosce un alleato in Dio e a Lui si affida; premuto da ogni parte da nemici visibili invisibili, sfugge alla loro presa precisamente nel suo colloquio con Colui che è l'Eterno.
Questa è la vittoria dell'uomo: i mali del mondo lo sforzano ad uscire dal mondo per entrare in un colloquio con Dio. Colui con il quale entri in comunicazione non è l'uomo che chi è vicino, non sono le cose, ma al di fuori del mondo, al di là di ogni uomo, è Colui che è immortale. La sofferenza ci obbliga alla preghiera, e nella preghiera l'uomo già sfugge alla sofferenza perché sfugge a questo mondo per entrare in un colloquio con Dio; la sofferenza indubbiamente ci attanaglia, ma nella misura che la sofferenza ci induce alla preghiera, la preghiera stessa e già la liberazione, è già l'atto col quale l'anima sfugge alla prigionia del male per entrare in comunione con Dio.
Un altro tema del Salmo è la vita come combattimento. La vita dell'uomo non è soltanto pena, ma è lotta, oppressione da parte di violenti, combattimento ineguale, ingiusto da parte dei malvagi. Non soltanto siamo in un mondo che ci ignora, siamo in un mondo che ci è nemico. Abbiamo questa percezione? Tutto ti può essere nemico, perché vi è un nemico che usa di tutto per andare contro di te. Ci rendiamo conto che la vita dell'uomo è un combattimento di proporzioni gigantesche, un combattimento che ha un carattere cosmico? Il Salmista parla di un nemico: Fino a quando su di me trionferà il nemico? "Il nemico": non si tratta di tanti nemici, ma di uno solo, ma questo uno vale per tutti. Il nemico è colui che è "il principe di questo mondo", e tutte quante le cose ubbidiscono alla sua volontà di nuocerti, di attentare alla tua vita.
Come l'uomo non potrebbe sentirsi smarrito? Egli vede, egli sente che la sua vita è in balia di una potenza stragrande che altro non vuole se non l'oppressione dell'uomo, la sua sconfitta, la sua morte. Tale è la potenza di questo nemico che umanamente non vi è scampo per te.
Fino a quando su di me trionferà il nemico? Dunque, egli ha già vinto? Si noti il carattere drammatico di questo linguaggio, che sdegna il chiaroscuro e dà l'impressione di una forza nemica soverchiante. L'orante già soffre la sua umiliazione, l'orante già è attanagliato dallo sgomento della morte.
Poi, subito dopo, in un passaggio felicissimo, quello che l'anima spera già lo possiede, e nella sua salvezza l'anima già celebra il trionfo di Dio sui suoi nemici. Dalla lamentazione così l'orante si innalza all'inno, alla lode al Signore.
Guarda, rispondimi, Signore mio Dio... L'accavallarsi delle parole che si ripetono dice la concitazione dell'anima che non trova altro rifugio che nel Signore. Conserva la luce ai miei occhi: la tenebra è segno di morte. E l'anima chiede una speranza: perché il mio nemico non dica: «L'ho vinto!» Dunque non si era esaltato ancora sopra di lui, ma era tanta la potenza dell'odio che l'orante aveva come sperimentato già la sua morte; ora invece, rivolgendosi a Dio, la morte si allontana, e il nemico, che già cantava vittoria, ora non la canta più.
In queste parole si innalza il canto di tutta la Chiesa, la preghiera supplice di tutta quanta l'umanità che sfugge, nel combattimento tremendo, alla sua morte. Perché il mio nemico non dica: «L'ho vinto!» Così l'umanità, nel grido gioioso della sua speranza, esce dalle prese dell'avversario, sfugge alla sua prigionia.
Il silenzio di Dio e il combattimento ineguale sembravano lasciare l'uomo solo nella sua miseria è, solo nella sua impossibilità di una salvezza. Dio tace e tu vai contro di te un nemico estremamente forte che vuole la tua fine. Come l'uomo dunque può esprimere una salvezza? In nessun altro modo, fintanto che vive quaggiù, se non nell'atto della speranza, onde egli getta un ponte dall'abisso della miseria e della sofferenza a Dio.
E l'anima vive la salvezza nella sua stessa preghiera. Tutto ci sforza alla preghiera, e la preghiera e già l'inizio della salvezza, la sicurezza della vittoria. Non aspettarsi oggi di più: il fatto che tu preghi, il fatto che nulla può imprigionare il tuo spirito, ma anzi il fatto che il combattimento ti sforza a gridare la tua angoscia Dio, proprio questo è già per te espressione di vittoria, e già per te esperienza di salvezza: anche se Dio tace, anche se Dio sembra non volgere il suo Volto verso di te, effettivamente già la tua vita si illumina in una fede eroica, e sfuggi alla presa del mondo per implorare l'Eterno, per abbandonarti a Dio.