Benvenuto: PAX et BONUM

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martedì 29 novembre 2011

Salmo 16

Salmo 16

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene».
Per i santi, che sono sulla terra,
uomini nobili, è tutto il mio amore.
Si affrettino altri a costruire idoli:
io non spanderò le loro libazioni di sangue
né pronunzierò con le mie labbra i loro nomi.
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è magnifica la mia eredità.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce.
Io pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alla mia destra, non posso vacillare.
Di questo gioisce il mio cuore,
esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,
né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.


È certo uno dei salmi più grandi del salterio, un testo dell'Antico Testamento tra i più ricchi di insegnamento, fra i più densi di significato e fra i più difficili da interpretare.
Prima di tutto noi dobbiamo stabilire, perché anche questo ha il suo peso per una meditazione più accurata nelle singole espressioni, chi ne sia l'autore, quale la data della composizione e il carattere particolare del salmo. È opinione, direi, tradizionalmente comune quella che l'autore del salmo sia David, sennonché ostano a questa attribuzione la lingua e soprattutto il contenuto del salmo. Il salmo difatti ha un carattere individuale ben preciso, non é come tanti altri salmi in cui la religione javistica si manifesta essenzi­almente come religione nazionale. Qui siamo di fronte invece ad una della più alte espressioni di pietà individuale, di religione personale. Certo questo non osta di principio all'attribuzione del salmo a David, sia perché David in qualche modo può impersonare la nazione essendo l'Unto del Signore, sia perché egli é un santo, cioè un'anima religiosa eccezionalmente dotata, e il santo può anticipare la pietà religiosa dei secoli posteriori. Se anche la religione javistica è una religione nazionale, é indubbio però che Abramo, Mosé, Elia, David, sono grandis­sime personalità religiose: non vivono il loro rapporto con Dio solo nella misura che essi si sentono investiti di una missione a favore del loro popolo, hanno un rapporto personale con la Divinità; é anzi in forza di questo rapporto personale, che la nazione stessa acquista una sua religione. Non sono essi che fanno parte di un popolo che adora Jahvè, é il popolo piuttosto che entra a far parte di quella alleanza che prima si è stretta fra queste grandi anime e Dio. Non osta dunque per principio che il salmo sia opera di David, ma non é tanto la religione perso­nale che questo salmo manifesta, di cui questo salmo é espressione, che crea la difficoltà di una attribuzione davidica, quanto piuttosto il contenuto di questa pietà personale. Effettivamente qui siamo di fronte a uno dei testi tra i più alti dell'Antico Testamento: rare volte la religione personale nella Bibbia, raggiunge simili altezze. La vita religiosa si esprime con grande. purezza come esclusivo possesso di Dio, ed è questo possesso il bene vero e la gioia dell'anima.
Può sembrare contro a un qualunque dubbio che noi si faccia della attribuzione davidica del salmo il carattere messianico della composizione, dichiarato precisamente da San Pietro negli Atti degli Apostoli, quando citando i versetti ultimi, dice che David aveva già annunciato come il Messia non avrebbe conosciuto la corruzione del sepolcro, ma sarebbe risorto dalla morte. Tuttavia non mi sembra che questa possa essere una difficoltà grave per dubitare della paternità del salmo, perché quando gli autori sacri parlano di David come autore dei salmi, ne parlano come parlano di Salomone autore dei libri sapienziali, come parlano di Mosè, autore della Torah. In Israele infatti si attribuiscono tutti i salmi a David e tutti i libri sapienziali a Salomone, come tutte le leggi a Mosè. David è per antonomasia l'autore dei salmi. In fondo, l'antico Israele, non conosce altri salmisti che David. È vero che il Salterio parla espressamente di alcuni altri autori oltre David, il Libro dei Proverbi attribuisce ad altri oltre che a Salomone alcuni detti sequenziali, e tuttavia mai nella tradizione comune ci si riferisce a questi altri autori quando si vuol parlare o dei libri sapienziali o dei salmi, ma unicamente a David come autore dei salmi, e a Salomone come autore dei libri sapienziali.
Così David, primo re di Israele e tipo messianico, grande uomo di stato e grande poeta, ricopre della sua autorità anche dei testi che non sono precisamente davidici, così come Salomone il re saggio per eccellenza, ricopre della sua autorità tutti i detti sapienziale che perciò sono attribuiti a lui. Non credo che l'attribuzione davidica sia assolutamente certa, ma non voglio nemmeno negare in modo assoluto a questa attribuzione: mi sembra che dubitare di questa attribuzione sia piuttosto un servizio all'esegesi perché ci permette di dare un senso e un valore più grande di quello che potrebbe avere se fosse stato David ad averlo composto. Mi sembra che la pietà personale di questo salmo pur facendo i conti con la santità di alcune figure eccezionali che Israele ha avuto nel suo passato, che questa vita di comunione con Dio, che l'espressione di così intima fruizione di Dio debba essere l'espressione di una pietà postesilica, della pietà cioè di un Israele purificato dal dolore che, passato attraverso la tormenta, ha cominciato a capire come Dio non debba essere servito per ottenere la ricchezza, la potenza e la gloria, ma debba essere servito per nulla, perché il massimo dei beni è poterlo servire, è massima gloria essere chiamati a lodarlo, è massima ricchezza possedere Lui solo.
Questo è il contenuto del salmo: l'uomo si trova in mezzo a tribolazioni senza numero, soprattutto perseguitato dai potenti e dai "santi". I "santi" non sono i fedeli a Jahvè, ma i consacrati, che possono essere i re e possono essere i sacerdoti. Con più probabilità ci sembra che stia a significare i sacerdoti, dal momento che distingue i potenti dai santi per dirci che Dio non si compiace né degli uni né degli altri. Egli si separa dagli uni e dagli altri e forse e dagli uni e dagli altri è perseguitato e calpestato. Questa mi sembra l'interpretazione autentica del testo che ci è giunto certamente corrotto.
Enzo Zolli traduce: "in quanto ai santi che sono nella terra e i potenti non mi compiaccio di loro". Il salmista è colui che è perseguitato e soffre da parte dei potenti e dei santi ed è per questo diviso da loro, ma anche volontariamente si separa da loro come da una congrega di idolatri e di perversi. Mentre gli unti di Dio, potenti e sacerdoti, lo perseguitano e lo abbandonano nella più grave distretta, il salmista chiede a Dio una protezione che lo salvi, gli dia almeno la certezza della sua unione con Lui, perché questo che gli basta. Gli altri hanno la potenza, l'orante ha Dio nel suo cuore: quello che egli possiede è ben più grande della ricchezza, della potenza che hanno coloro che lo perseguitano. Egli glorificherà Dio perché gli è toccato in sorte, la più grande di tutte. Che cosa può cercare l'anima anche nell'estrema rovina? Egli avrà fiducia, egli riposerà sicuro perché Dio è con lui, Dio è il suo bene.
Sembra che il salmo alla fine accenni anche ad una vita oltre la morte: sarebbe questo uno dei pochi testi che si possono portare, non tuttavia con autorità apodittica a conferma della dottrina della immortalità e della resurrezione: molto probabilmente gli ultimi versetti importano infatti la rivelazione di una vita oltre la morte. La comunione con Dio nemmeno la morte potrà spezzarla mai più. Anche se i nemici vorranno infierire su di lui fino a dargli la morte, egli potrà superare nella sua speranza il male che gli è minacciato perché anche oltre la morte egli sa di poter vivere la sua comunione con Dio. Può darsi invece che il salmo non ha voglia immediatamente insegnarci la resurrezione e l'immortalità, ma voglia significarci come pur vedendosi circondato da ogni parte da minacce e da pericoli il salmista tuttavia sia al sicuro perché Dio lo libererà. Parla di sepolcro e di corruzione, ma forse non vuol parlare di morte, non vuol parlare di tomba, ma di una rovina cui vogliono ridurlo e i suoi nemici e da questa rovina egli ha fede che Dio saprà liberarlo e farlo risorgere.
Anche se questo fosse il significato letterale del salmo, l'esegesi deve comunque approfondirsi seguendo la via che ci ha tracciato San Pietro nell'applicare gli ultimi versetti al Signore, riconoscendo in questo salmo l'annuncio della resurrezione del Cristo. Nemmeno la morte può spaventare il giusto che vive in comunione con Dio perché Dio è immortale, è per il giusto garanzia di vittoria anche sopra la morte. Se l'espressione biblica fosse solo un'immagine, almeno questo rimarrebbe l'insegnamento fondamentale del salmo.
Colui che è fedele a Dio pur nella persecuzione gode la pace perché Dio è con lui. Questo in povere parole il contenuto religioso del salmo. Il salmista non nega che la persecuzione debba accompagnare colui e che è fedele al Signore, anzi riconosce implicitamente che la potenza è di coloro che non sono fedeli a Jahvè, ma sono idolatri della ricchezza e della potenza. La potenza è loro, il fedele a Jahvè non possiede altra ricchezza che Dio. L'anima religiosa non può avere altra gioia che non sia quella del divino possesso. Dal momento che tu hai scelto Dio, tu hai scelto il vuoto delle cose presenti, hai scelto lo spogliamento, l'umiltà, tu hai scelto l'odio del mondo, hai scelto precisamente la morte. Ma non l'umiltà, non la povertà, non l'odio, non la morte, sono per te motivo di pena, perché lo spogliamento a cui ti riducono i potenti rende ancora più grande il sentimento della intimità divina, fa sì che l'anima esperimenti nel suo fondo la ricchezza di Dio nella pace e nella gioia. L'anima vive in Dio, nessuna cosa creata ha potere contro questo divino possesso; l'odio del mondo fa sì piuttosto che l'anima sia consapevole di questo possesso divino e perciò proprio nella massima distretta l'anima non geme, non impreca, ma canta. Proprio nel mezzo della tribolazione si innalza il canto del ringraziamento, della lode a Dio: Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene. Proprio perché non ha più nulla il salmista sente di possedere già la vita del cielo, di vivere la vita di Dio.
Il salmo in fondo non canta una situazione particolare: canta la situazione di una anima che abbia scelto Dio e che Dio abbia scelto per Sé. Questa anima rimane estranea al mondo e il mondo la combatte. Ma nella sua povertà e nella sua umiliazione questa anima possiede un'immensa ricchezza e vive un immenso bene: Dio stesso. La presenza di Dio nel cuore umano ha come sua condizione questo spogliamento esteriore, questo stato di umiliazione e di povertà, questa condizione di pena che è propria di un esule e di un perseguitato. Che cosa chiede l'anima Dio? Per quel che riguarda la propria vita, una cosa sola: che il male, che l'odio, non debbano sopraffarla. La protezione divina si manifesta efficace col far sì che l'anima sostenga il peso della solitudine umana senza esserne schiacciata. Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio. Dio è il rifugio dell'anima: nella sua povertà e nella sua impotenza ella si sente indifesa ed implora una difesa divina, ma non chiede che i mali tolti le siano restituiti da Dio, non chiede che alla persecuzione, onde l'anima deve vivere come fuggiasca ed esule, risponda Dio reintegrandola nei primitivi diritti, riportandola al possesso di un bene terreno. Se l'anima si rifugia in Dio, è perché in fondo, in Dio già tutto possiede. Nella povertà di ogni cosa ella non sente quanto le è stato tolto perché essa ora si accorge di quale bene è gratificata. Dalla sua povertà ella è ricondotta nell'intimo, è riportata se stessa, e dimorando in se stessa e rientrando dentro di sé ella si accorge di avere un bene immenso, superiore a tutti i beni che le sono stati rapiti, superiore a tutti i beni che il mondo potrebbe offrirle: Dio è il Bene dell'anima. Tutto quello che l'anima può desiderare, tutto quello che l'anima può volere, tutto ella ritrova in Lui. Nella suprema distretta ella gode un'immensa pace. Dio è la sua ricchezza divina, Dio è la sua pace.
Ho detto a Dio: Sei tu il mio Signore. Che cosa vuol dire sei tu il mio Signore. Noi non possediamo le cose che essendone in qualche modo posseduti. Ogni possesso e implica anche una schiavitù. Perciò San Paolo nella Lettera agli Efesini parla dell'avarizia come di una idolatria. Ogni proprietà che tu hai ti rende anche schiavo. Soltanto l'anima povera, disprezzata, umiliata, calpestata dal mondo, soltanto l'anima che si trovi priva di tutto può adorare Dio, e riconoscerlo come suo Signore. Nella sua suprema povertà ella è libera per questo servizio divino. Ella è libera per il riconoscimento di questo supremo dominio che Dio ha su di lei. Soltanto il povero è fedele e non si piega a nessuna idolatria. Il salmista soggiunge: senza di te non ho alcun bene. Il secondo versetto senza di te non ho alcun bene è la spiegazione del primo. Perché il Signore dell'anima è Dio? Semplicemente perché l'anima non ha altro bene che Lui. Così noi veramente riconosceremo Dio come nostro Signore quando saremo in Paradiso e l'anima nostra spoglia di tutto, povera di ogni altro bene, anche del corpo, non possederà più che la luce divina, non possederà più nient'altro che Dio. Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene. Sono parole meravigliose. Noi siamo facili ad usare un linguaggio falso e retorico specialmente nella pietà. Quante volte si dice a Dio che si ama! e chi di noi direbbe di essere idolatra? crederebbe di essere idolatra? e tutti lo siamo. Non per nulla l'Antico Testamento praticamente riconosce solo questo peccato: l'idolatria, l'apostasia da Dio. Da dove nasce di idolatria? dal fatto che tu ti metti servizio di un altro signore. Ascolta Israele - dice il Signore - Io sono il Signore Dio tuo. Io il tuo Signore, io dunque anche la tua mercede. Io il tuo Signore, io dunque anche la tua proprietà, perché l'una cosa implica l'altra. Dio è il Signore di Israele nella misura che Israele ripropone in Dio ogni suo bene. Questo è vero per Israele intero, e di fatto Israele vivrà i suoi comandamenti divini e sarà fedele dopo l'esilio, quando Dio gli avrà tolto la terra, la monarchia, ogni potenza, ogni gloria, ogni sicurezza, e non rimarrà a Israele null'altro che la divina elezione. Così per la anima. L'anima potrà riconoscere Dio solo quando all'anima non rimane più la sua vocazione di amore. Bisogna aspettarci di tutto se Dio deve essere il nostro bene, bisogna che tutto questo si dimostri e si manifesti nell'essere noi strappati ad ogni bene terreno cui l'anima nostra si aggrappa nella paura, nello sgomento che tutto le manchi. È quando tutto ci sarà tolto, che la nostra parola sarà pura, allora la nostra preghiera sarà vera e la nostra testimonianza verace e fedele. Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene.
L'anima religiosa è messa in disparte, buttata ai margini di questo mondo. Su questo fiume limaccioso del tempo, ella è sempre mandata alla deriva, buttata al di fuori. Non si trova nel cammino della potenza, della ricchezza. È al di fuori. Quello che appare ci inganna: la potenza, la ricchezza, sono per le anime semplici, per le anime umili che nessuno conosce. Sono questi gli eletti di Dio. Sembra che essi siano il piedistallo su cui si erge la potenza, ed è il contrario che è vero. La potenza, la ricchezza, è al servizio dell'umiltà, è al servizio dei poveri che nessuno conosce e passano ignorati perché Dio li conserva per Sé, li vuole tutti per Sé; passano ignorati dal mondo perché essi sono di Dio.
Santo può essere Saul per i David, se David è il cantore del salmo, possono essere i re apostati del regno di Israele o del regno di Giuda: manasse, Acab, Iezabele, possono essere i sacerdoti infami dell'epoca maccabaica. Il mistero è profondo. L'economia cristiana, in un piano più alto, non ripete forse l'economia antica? Anche oggi i potenti del mondo sono a servizio degli umili. Nel Vangelo di San Giovanni Gesù è il nuovo Agnello Pasquale. Giovanni fa coincidere la morte di croce all'immolazione dell'Agnello, per insegnarci che il vero Agnello è Gesù, la vittima di sostituzione. Ma da chi è immolato? La passione del Cristo si inizia con la profezia di Caifa, che è sacerdote. Gesù riconosce legittimo il sacerdozio da cui dipende la sua morte. Non solo viene iniziato con la profezia, ma è proprio per il sacerdozio che Gesù viene condannato. Erode non lo vuole condannare: lo veste da pazzo e lo rimanda. Pilato non lo vuole condannare: cerca in tutti i modi di salvarlo. Chi vuole la sua morte è il sacerdozio ebraico ed è giusto anche che sia così. Quale mistero? Qual è l'ufficio principale del sacerdozio se non il sacrificio, l'immolazione della vittima? E perché ci stupisce che nella Chiesa il potere sacerdotale, alcune volte, debba esigere il sacrificio degli uomini? È normale, ed è un fatto grandissimo, è un fatto meraviglioso. Comunque, stia attento il potente, stia attento anche il santo. Il santo, il consacrato sarà salvo solo se vivrà il suo ministero ha precisamente come servizio ai poveri. Per loro egli vive: in funzione di loro tutta la gerarchia, tutta la potenza della Chiesa, tutta la grandezza dei sacri ministeri, tutta l'autorità di cui Dio ha rivestito il sacerdozio.
L'anima che possiede Dio, il fedele a Jahvè è colui che si trova al di fuori. Colui che anticipa la vita celeste sottraendosi al mondo presente. Ma come potrebbe sottrarsi a questo mondo ed essere di un altro mondo se ancora egli è radicato quaggiù per quello che possiede, per quello che ama, per una sua volontà di potenza? Sradicamento dal mondo vuol dire povertà, vuol dire solitudine e vuol dire umiltà. L'anima che possiede Dio non è soltanto, però, quella che da se stessa si pone in questa condizione di umiltà e di povertà: è quella che piuttosto che, indipendentemente dalla sua volontà, ma non contro sua volontà, si trova in questa condizione come privilegio divino. Questa anima non ha altro rifugio che Dio, né può conoscere ormai altra proprietà che il Signore. Essa anticipa la vita celeste nella povertà e l'umiltà della condizione terrena o anche nel soffrire persecuzione da parte della potenza e della ricchezza del mondo; la tentazione alla potenza! I potenti non sono coloro ai quali serve il potere: sono quelli piuttosto che sono asserviti. "Sono molte le immagini sacre alle quali offrono doni amorosi". Ecco dove porta la potenza! nell'essere schiavi alla idolatria di ciò che viene posseduto. L'idolatria è la malattia comune di ogni anima che non viva nella povertà più nuda, nell'umiltà più grande.
Si affrettino altri a costruire idoli: io non spanderò le loro libazioni di sangue. La libertà dell'anima di fronte a tutto! L'anima è veramente libera nella sua povertà. Domina il mondo colui che sa rinunziarvi. Soltanto questa anima non offre libagioni di sangue, non sacrifica se stessa a idoli vani. Ma cos'è la nostra vita se non un continuo rito, un sacrificio di noi stessi alle cose del mondo? Un sacrificio del nostro tempo, della nostra salute, forse della nostra anima a chi non è Dio. La vita è sempre una liturgia: una offerta a Dio oppure un'offerta a idoli vani. Ci si sacrifica alla cultura, ci si sacrifica alla moda, ci si sacrifica alla vanità, alla sete di denaro, alla potenza! perché non siamo liberi, perché non siamo poveri, perché non abbiamo Dio come nostro solo bene. Se non si arriva a sacrificare la propria anima, si sacrifica il sonno, il riposo, la salute, la vita.
Io non spanderò le loro libazioni di sangue. Lo può dire soltanto colui che non vuole altro che Dio, perché volere Dio è non essere attaccato più a nulla, è possedere libertà perfetta di fronte a tutte le cose. Così rimango fedele a Dio solo. E allora sono figlio della Chiesa. Quando anche fossi spogliato di tutto, di Dio nessuno potrà spogliarmi: anzi è proprio in questo mio spogliamento supremo che può manifestarsi la santità più alta. Prima la parte negativa: l'anima si separa da tutti gli istinti ma vive in comunione con Dio. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice. Il Signore è sua proprietà. Lo aveva già detto prima all'inizio, ma lo ripete con un linguaggio più aperto e spiegato; sembra che ora dopo aver rifiutato i beni del mondo, dopo essersi separato da tutti, ora egli dia libero sfogo al suo canto, voglia espandersi nella lode. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice. Alla mensa, nei paesi orientali, si passa il calice, tutti ne hanno parte ed è un calice solo. Ecco: tu porti l'anima al banchetto cui Dio ha invitato prima Israele e poi tutti popoli. A questo banchetto che è la vita del mondo, la parte che è toccata all'anima è Dio. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice. L'anima non è più sgomenta. Prima Dio era il suo rifugio: proteggimi, o Dio: in te mi rifugio. Ma ora l'anima non implora più la protezione è la difesa di Dio. Ora è l'esperienza dell'anima, è essere nelle mani di Dio. La sua parola è stata efficace. Dio è il possesso vero dell'anima perché Dio stesso ha fatto dell'anima la sua proprietà più gelosa. Continua: Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi.... L'anima parla di una terra fertile. Con immagini sempre nuove, con immagini di un vivo realismo che si rifà ai costumi di allora, il Salmista esprime sempre la stessa realtà di un possesso divino. Il Salmista non ha nessun bene all'infuori di Dio: Dio è per lui un'eredità, è la parte del calice, è un luogo delizioso. E l'anima si compiace di questo divino possesso: è magnifica la mia eredità. L'anima non sente le sue privazioni, l'anima non soffre della sua solitudine, l'anima non avverte più la sua povertà. La sua povertà, la sua solitudine è soltanto segno di un'immensa ricchezza, di un'immensa gioia che l'anima gode nel possesso divino.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio; anche di notte il mio cuore mi istruisce. Certo non dipende sempre dall'anima l'essere scartati, rigettati ai margini della vita; l'elezione divina sembra alcune volte anche fare a meno di un nostro consenso. Quante sono le anime che non fanno in fondo che accettare la propria sorte e non sanno che in questa sorte è il segno di una predilezione divina! Ma ora si parla, invece, di una accettazione, di un consenso amoroso:Benedico il Signore che mi ha dato consiglio. Per questo il salmo è stato scelto per l'iniziazione monastica. È Dio che ha chiamato l'anima, ma è l'anima che ha assentito al desiderio e nell'umiltà ha obbedito alla voce di Dio. E la parola che ci chiama si fa udire anche di notte. In una esegesi letterale sembra che si debba intendere come anche nei sogni Dio istruisca l'anima; i sogni per gli antichi semiti erano un segno divino; l'interpretazione dei sogni faceva parte del carisma profetico. Per noi cristiani non si deve parlare di un'altra notte? Dio parla all'anima anche quando si trova nelle tenebre e nel vuoto. Dio non si allontana mai da colui che ha potuto dire che il Signore era l'unico suo bene.
Il Salmista non considera più la condizione dell'uomo che ha cercato Dio in quanto impone all'anima come un esilio da questo mondo, ma considera invece il lato positivo: Dio è veramente la sua ricchezza. Se è povero umanamente, egli possiede nell'intimo una ricchezza che compensa ogni povertà e ogni umiliazione. Io pongo sempre innanzi a me il Signore. Ecco quello che vive l'anima esule in questo mondo, estranea al mondo presente; l'uomo vive in una nuova patria, in una nuova terra, che è la divina presenza.Perché è però questa divina presenza sia per l'anima una patria, è necessario che l'anima non abbia in Dio soltanto un supplemento, non abbia nel possesso divino, nella pace che gode in Dio come un superfluo alla vita di quaggiù. Molto spesso la vita religiosa degli uomini è precisamente questo: un superfluo. Il mondo ci accusa precisamente di questo: se Dio è Dio, per noi, com'è che praticamente siamo come gli altri, fondiamo nei beni di quaggiù la nostra speranza, vogliamo che la sicurezza economica, la stima degli uomini, l'affetto delle creature siano come il fondamento su cui poggia la nostra esistenza? La vita religiosa e dunque un sovrappiù, è fatta dunque per i ricchi che hanno sempre più di quanto essi hanno bisogno?
Grave accusa i credenti, una vita religiosa che è soltanto un oggetto di lusso, che dona all'anima una ricchezza, oltre la sicurezza che le donano i beni terreni, la stima degli uomini, il potere sugli altri! Giustamente l'anima religiosa non può conoscere altra ricchezza che Dio. Dio non può mai divenire per l'anima un lusso, non è mai il superfluo della vita. Io pongo sempre innanzi a me il Signore, dice il Salmista. L'esercizio della divina presenza non è qualcosa che si aggiunge alla vita che l'anima vive in rapporto con gli uomini, in un possesso di beni terreni, in una sicurezza che le danno il proprio lavoro e la stima degli altri: Dio è tutto il suo mondo. Sì: Gesù rimane causa esemplare della vita religiosa, rimane causa esemplare della vita religiosa ogni santo che è vissuto nel mondo come un estraneo, che è vissuto nel mondo come abbandonato da tutti, dimenticato da tutti, povero e solo; e nella sua povertà ha saputo riconoscere e possedere un bene immenso, Dio: Dio non è come un bene superfluo, ma come la necessità primordiale: Dio come tutta la vita. Questo ci insegna San Francesco d'Assisi.
La presenza di Dio! per noi la presenza di Dio si aggiunge al nostro lavoro. Pensiamo di mantenerci alla presenza di Dio studiando; lo studio è la ragione della vita e si cerca di integrare questa nostra applicazione allo studio con una intenzione religiosa, Dio in fondo è un di più. Perché non ne facciamo a meno? La nostra vita nella sua semplicità non sarebbe più ricca? Uno studioso che faccia a meno di Dio non vive una vita più semplice e più grande di una anima che studia e cerca anche il Signore? Tanto più è grande la vita quanto più è una. Noi di Dio facciamo molto spesso un oggetto di lusso che arricchisce una vita fondamentalmente umana. Dio, tutta la vita! Vivere la presenza di Dio! Si può certo studiare: a il vivere alla presenza di Dio non esclude certamente che si viva un lavoro, che si eserciti una professione, che si abbiano impegni anche umani, rapporti anche umani. Non esclude questo: ma dobbiamo operare questa trasformazione: che Dio sia il fondamento e tutto il resto non abbia valore fondamentale; che noi non siamo prima di tutto dei professionisti e neppure dei padri di famiglia... Prima di tutto questa presenza. Come in Cielo, la presenza di Dio deve essere tutta la vita. Tutta la vita dell'anima deve essere in queste semplici parole: Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare. L'anima che si è consacrata al Signore deve arrivare precisamente a questo: sentire che Dio non è il superfluo, non è un bene che si aggiunge, non è il condimento di una pietanza, la veste che ti ha ricopre. È tutta la vita. Allora, ma allora soltanto, le cose esteriori non toccano l'anima e non tolgono nulla alla pace del cuore; non tolgono nulla alla sua beatitudine, non tolgono nulla alla sua ricchezza interiore. Quando l'anima di tutto ha saputo spogliarsi radicalmente per radicarsi in Dio, allora la vita dell'anima non è che felicità, pienezza di gioia.
Al termine il salmo contempla la vita del giusto come una vita di beatitudine che neanche la morte può compromettere o rovinare. Dio è infinita ed eterna beatitudine e l'anima che vive in Lui non può che possedere in Lui questa beatitudine somma, non può non conoscere e non possedere questa infinita ricchezza. È quello che dice San Paolo nella II Lettera ai Corinzi.
La vita del cristiano è la gioia: ma solo il vero cristiano può conoscerla, solo colui che ha scelto Dio, che lo ha scelto non come una ricchezza superflua, ma come la necessità prima di tutta la sua vita che ha aderito a Lui con una a tale dedizione e adesione interiore e da farsi estraneo ad ogni perturbazione esteriore. Che importa la povertà e la ricchezza esterna? Che importa la stima degli uomini e il loro oblio? Che cosa può importare la malattia o la salute? Se veramente il tuo bene, la tua vita è Dio stesso, Dio non ti manca. E in Dio non solo l'anima tua, ma anche il tuo corpo esulta e trova la pace. È difficile vivere questa vita religiosa e che pure deve essere l'impegno di ogni anima. Abbiamo scelto Dio: che Dio dunque sia il nostro tutto. Se Dio è il nostro tutto, nulla ci manca. Ci può mancare la stima degli uomini e il loro favore, ci può mancare il pane, la salute: Dio non ci manca perché Egli è l'Eterno.
Dio solo basta, diceva Santa Teresa. Non è un bastare che indichi la pura sufficienza; Dio non è soltanto il minimo necessario per tutta la vita. È il massimo, invece, della beatitudine, già ora. La gioia è solo dei poveri. La beatitudine è solo di chi di tutto si è spogliato per non avere che Dio.Di questo gioisce il mio cuore, esulta la mia anima. Non si tratta soltanto della pace. La pace è una cosa grande: indica in fondo la sazietà. Si parla di una sovrabbondanza. L'esultazione è come la spuma dello champagne, il bicchiere non lo contiene, spuma e trabocca. L'esultazione non è soltanto l'essere colmi della pace, è il traboccare della anima nella gioia. È la beatitudine del Cielo, non la pace.
San Benedetto parla di pace e anche il monachesimo e insiste più sulla sobrietà che sull'esultanza. Ma la Sacra Scrittura no. Non solo il Nuovo Testamento, anche l'Antico comanda la gioia. Ogni anima religiosa deve essere ubriaca di Dio. Dobbiamo tendere all'ebbrezza divina! Ricordate San Paolo? non parla soltanto di pace, di una pace che supera ogni sentimento: parla anche di una sovrabbondanza di gioia che si esprime in inni e canti spirituali. Parla di quella pura esultanza che è segno di una presenza del Regno, diviene segno di una anticipazione della beatitudine futura. Dipende da noi questa gioia? Certo! Dobbiamo essere poveri! Accettare la povertà, volere la povertà che è condizione di una beatitudine già presente perché è condizione di un possesso di Dio. Non dobbiamo nemmeno volere la povertà, dobbiamo volere Dio. Ma Dio non è Dio perché se Egli non è l'Unico, il Tutto. Non è il lavoro, non la cultura, non la sicurezza economica, non la salute: Dio! In modo che non sia legata all'anima a questi beni esteriori, i quali nella misura che si posseggono, anche ci rendono schiavi, esigono il contributo di un sacrificio, l'adorazione e il servizio; ma sono dovuti a Dio solo. A questa povertà radicale, affettiva dell'anima che ha scelto Dio solo, non può rispondere più che la gioia. La gioia anche nella tenebra, nel vuoto, nella aridità, nell'intima desolazione dell'anima. Se tu non vuoi che Dio, nulla è effettivamente può togliertelo.
Di questo gioisce il mio cuore, esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro. Dio trascende infinitamente il tuo corpo come il tuo spirito, ma donandosi Egli inebria ed esalta ugualmente l'anima e il corpo. Si pensi a Francesco d'Assisi, si pensi a Serafino di Sarov, si pensi al Beato Giovanni Ruysbroeck; tutto l'uomo viene come creato nuovamente in questo divino possesso. Non soltanto la vita ora è traboccante di gioia, ma c'è una gioia che non può essere compromessa da nessun fattore esterno; non solo dalla persecuzione mossa dagli uomini, non solo dalla malattia, ma nemmeno dalla morte.
L'anima religiosa nell'Antico Testamento non giunge alla intuizione della immortalità per una postulato filosofico: vi giunge per una esperienza religiosa. La comunione con Dio non può conoscere la morte, non può essere toccata dalla morte. Tu hai conosciuto Dio, tu non conoscerai più la morte, perché Dio è l'Eterno. Dio che si comunica a te, Dio col quale tu vivi, rende te immortale ed eterno. Per i greci non è una comunione con un dio personale che garantisce l'immortalità, una vita oltre la morte, ma il fatto che l'anima è di diversa natura dal corpo. Il corpo è soggetto alla corruzione, l'anima no, perché è spirituale. L'Antico Testamento non contesta il ragionamento dei filosofi ma ci dà la testimonianza di una esperienza religiosa che è già esperienza di immortalità. Se vivi in comunione con Lui, la morte stessa non ti tocca più. Non solo l'odio degli uomini, non solo la povertà; nulla ti tocca, la povertà non toglie nulla alla tua pace. L'odio degli uomini non turba la tua gioia, la morte stessa non ha potere su di te. Dio ti ha salvato, ti ha portato fuori da tutto. Tu vivi in Lui la sua medesima vita, possiedi in Lui un bene che è eterno. Perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Questi versetti debbono interpretarsi almeno in senso tipico in tal modo da annunciare la resurrezione del Cristo. San Pietro li cita a proposito di questa resurrezione. È un salmo messianico, il giusto è il Cristo. Ma anche ogni fedele e in qualche modo Cristo medesimo. Naturalmente il Servo di Jahvè, colui che nella povertà di ogni bene terreno, nella persecuzione degli uomini, divise una perfetta comunione con Dio, è Gesù. Per questo il salmo in a Gesù anche ha il suo adempimento perfetto. Ma come San Pietro cita queste parole del salmo a proposito della resurrezione del Cristo, così possono interpretarsi a proposito di ogni cristiano, nella misura che ogni cristiano è fedele e nella povertà di ogni cosa terrena possiede in Dio ogni suo bene come dice il salmo all'inizio.
Così nella misura che ogni anima possiede in Dio il vero suo bene, il bene unico e pieno, nella stessa misura l'anima anche sperimenta questa sua sicurezza e già vive la sua immortalità.
Mi indicherai il sentiero della vita. Dio apre al giusto il sentiero della vita. Dio gli dona gioia piena nella sua presenza. Non soltanto nel mondo futuro: il Salmista parla di quaggiù. Io pongo sempre innanzi a me il Signore. Già ora a l'anima vive davanti al volto di Dio, già ora e per sempre l'anima possiede in Dio la sua gioia: dolcezza senza fine alla tua destra.

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