Benvenuto: PAX et BONUM

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martedì 29 novembre 2011

Salmo 6

Salmo 6

Signore, non punirmi nel tuo sdegno,
non castigarmi nel tuo furore.
Pietà di me, Signore: vengo meno;
risanami, Signore: tremano le mie ossa.
L’anima mia è tutta sconvolta,
ma tu, Signore, fino a quando...?
Volgiti, Signore, a liberarmi, salvami per la tua misericordia.
Nessuno tra i morti ti ricorda,
chi negli inferi canta le tue lodi?
Sono stremato dai lunghi lamenti,
ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio,
irroro di lacrime il mio letto.
I miei occhi si consumano nel dolore,
invecchio fra tanti miei oppressori.
Via da me voi tutti che fate il male,
il Signore ascolta la voce del mio pianto.
Il Signore ascolta la mia supplica,
il Signore accoglie la mia preghiera.
Arrossiscano e tremino i miei nemici;
confusi, indietreggino all’istante.
I Salmi sono giustamente la preghiera propria dell'uomo, dell'uomo che implora una redenzione, dell'uomo che sperimenta tutta la sua povertà, tutta la sua miseria.
Se il Cristianesimo è la religione della Redenzione, è ben giusto che l'uomo, nell'accostarsi a Dio, debba sentirsi come gravato di tutti i mali. Il ringraziamento e la lode non è l'atteggiamento proprio dell'orante: è piuttosto l'implorazione e la supplica.
L'uomo non può vedere, in Dio, prima di tutto, che il suo Salvatore - un Salvatore che lo libera dalla sua angustia e lo redime dal suo peccato, un Salvatore che viene incontro alla sua miseria.
Se la vera religione è una religione di Redenzione, è naturale ed è necessario che la conoscenza che l'uomo ha di Dio sia prima di tutto la conoscenza di un Salvatore, la conoscenza di una Misericordia che perdona, di una Bontà che salva. Ma allora la conoscenza di Dio è in qualche modo in rapporto alla conoscenza che l'uomo ha di sé, del suo peccato, all'esperienza che l'uomo ha del proprio suo male.
La preghiera è essenzialmente un grido che sale dal profondo del dolore umano, dalla miseria umana. Così si spiega come i Salmi siano in massima parte lamentazioni individuali o collettive. Fanno parte dei Salmi anche gli inni, il ringraziamento, la lode, ma in tutto il Salterio ben più numerosi sono i Salmi che sono lamento, che sono grido di angoscia, supplica, pianto, disperazione...
Conviene di più che sia questa la preghiera dell'uomo. Sempre la lode e il ringraziamento portano con sé qualche cosa di falso, per noi che viviamo quaggiù sulla terra, o almeno non sono l'espressione propria dell'uomo quando si rivolge Dio. L'uomo, fintanto che vive quaggiù, è salvo soltanto nella speranza, ma nella realtà egli soffre, rimane in una condizione di pena, in una condizione di castigo, in una condizione di sofferenza e di morte. Sofferenza per la malattia, sofferenza per intima pena, desolazione di spirito, sofferenza per la persecuzione che l'anima deve sopportare.
Ma le desolazioni di spirito non sono proprie dell'uomo comune, non sono la sua veste abituale quanto lo è piuttosto la malattia. È attraverso il corpo che l'uomo soffre quaggiù la sua condizione di miseria, che soffre la sua condanna. È attraverso il suo corpo che l'uomo sperimenta l'umiliazione e il castigo di Dio. E non vi è nulla che veramente di più umilii l'uomo della malattia. Ci sembra alcune volte che Dio potrebbe risparmiarci, tanto ci sembra poco conforme alla nostra dignità di uomini, e tanto più di cristiani, il dovere essere sottoposti a questa umiliazione.
Non solo: sentiamo anche di più come la malattia sia qualche cosa che l'uomo deve soltanto accettare; egli non riesce mai del tutto a trasfigurarla e a sublimarla. Ma è proprio per questo, forse, che di più di ogni altra cosa la malattia dice la condizione terrestre dell'uomo, e proprio per questo noi tutti dobbiamo conoscerla. Possiamo forse non conoscere particolari desolazioni di spirito; ma non sarà mai nessuno quaggiù sulla terra che non conosca il dolore fisico.
Di fronte a questo dolore l'uomo non può non deporre ogni albagia, non ridussi ai suoi limiti, non sentire la propria umiliazione. E proprio per questo ci sembra che sia più difficile santificare la sofferenza. Ma è vero il contrario. Proprio perché dinanzi alla malattia l'uomo è nudo, spoglio di ogni sua pretesa, di ogni suo orgoglio, proprio per questo egli può offrirsi a Dio, offrirsi così come è, lasciando a Dio il compito, che è esclusivamente Suo, di salvarlo.
La preghiera dell'uomo - dice San Tommaso D'Aquino - è sopratutto l'intercessione - non la lode, non il ringraziamento, che sono propri piuttosto della vita futura. Quaggiù noi possiamo lodare Dio, ma non è la nostra parola la lode; noi possiamo ringraziare Dio, ma non è il ringraziamento la nostra parola. La nostra parola è il gemito, è il pianto, è il grido, è l'implorazione, è l'espressione di un dolore che non trova nessun lenimento: l'unico lenimento è quello di poter essere gridato, questo dolore, a un Dio che ascolta.
Alcune volte sembra che non tanto sia preghiera, questo grido, quanto disperazione e rivolta. Ma anche nella disperazione e nella rivolta è sempre presente la preghiera - la disperazione non è mai totale. L'uomo è disperato perché non trova nessun modo di difendersi di fronte a una sofferenza che lo umilia così, e lo spoglia di tutto, e lo rende nudo: l'uomo non può salvare nessuna sua rispettabilità di fronte al suo dolore. Di qui la sua disperazione. Ma la disperazione è la preghiera stessa dell'uomo - dell'uomo che non può conoscere altro rifugio che Dio e grida a Lui, anche se Dio tace, e grida a Lui sperando. Ecco, la speranza nasce proprio dalla disperazione umana: l'uomo spira che almeno Uno vi sia che possa ascoltarlo. Uno, perché ogni altro cui egli possa rivolgersi non ha potere di venirgli in soccorso in questa sua estrema condizione di pena.
Sì, è la disperazione l'atto proprio della preghiera, perché la preghiera non può innalzarsi che quando ogni speranza umana è venuta meno, è stata frantumata dal dolore e, più che dal dolore spirituale morale, dal dolore fisico. È questo il vero dolore, l'altro dolore non ci spoglia del tutto: nell'altro dolore noi ancora abbiamo qualche cosa, non ci riduciamo al nulla, non siamo così umiliati, così privi di ogni difesa, di ogni sentimento di un nostro valore. Ma i malati che non hanno più alcuna speranza umana di soccorso, di sollievo, hanno per loro la preghiera; questo appello che supera il silenzio del mondo che si rivolge ad un Altro che sta in ascolto è l'unico atto umano che rimanga. Ed è di queste anime la preghiera anche dei Salmi, perché i Salmi sono la preghiera dell'uomo. Prima di essere la preghiera di Gesù, prima di essere la preghiera del Cristo mistico, è stata la preghiera dell'uomo, di noi nella nostra natura calpestata, spremuta dalla sofferenza, umiliata dal dolore.
Come è reale la preghiera di Salmi! Come è vera! È vera, è reale perché conosce l'uomo. È veramente la parola che sale dal profondo dell'umana sofferenza, dell'umiliazione umana. È veramente la nostra preghiera, una preghiera che ci conosce che può essere perciò anche la nostra parola. All'anima sembra che veramente sia così grave la sua pena, il castigo che soffre, che non vede alcuna proporzione tra la sua sofferenza e il suo peccato.
Nel Salmo non c'è il segno di un pentimento, di una coscienza di peccato da parte dell'orante - egli si sente colpito, non dico ingiustamente, ma comunque senza ragione. Egli non sa, non vede perché: si sente alla mercè di un mondo estraneo e nemico, e di un Dio stesso estraneo e nemico. Come può sussistere l'uomo? Sussiste soltanto in questo grido, in questo atto di disperazione onde egli cerca di superare il silenzio di Dio e invoca il suo intervento. La collera, l'ira di Dio, nel Salmo, non richiamano necessariamente un peccato dell'uomo. Noi sappiamo che il tema della collera, dell'ira, è un tema biblico che può essere in dipendenza dal peccato dell'uomo, ma può essere anche che non lo sia. Dice, in fondo, una misteriosa condotta di Dio nei riguardi dell'uomo, una condotta divina che l'uomo non può giudicare. Basta che Dio si avvicini perché l'uomo non regga. La collera e l'ira di Dio sono il peso della sua grandezza, dicono l'incommensurabilità dell'Essere divino con l'essere umano.
Questa incommensurabilità di Dio trova i suoi alleati, anche dei nemici, nelle malattie, nel mondo che è contrario all'orante. Non che Dio sia solidale col mondo e con i nemici nel perseguitare l'orante: è piuttosto il mondo, sono i suoi nemici solidali con Dio stesso nel deprimerlo, nel perseguitarlo, opprimerlo, scompaginarlo, schiacciarlo. Tutto quanto l'uomo riceve, tutto quanto soffre da parte di chiunque, l'uomo lo sente prima di tutto come atto divino, come peso della divina grandezza.
Non è Dio, dunque, che si fa solidale con i persecutori, ma i persecutori, la malattia, il mondo... divengono lo strumento onde Dio si fa presente all'uomo. E l'uomo, in questa presenza, non regge. Più che un castigo per i peccato, sembra veramente che qui si esprima l'esperienza dell'uomo che si sente incapace di difendersi di fronte all'incommensurabilità di un Dio che si avvicina lui.
Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore. Nulla di più grande, dal lato religioso, di queste espressioni. Collera e ira di Dio sono espressioni interamente antropomorfiche, ma non si potrebbero cambiare - di fatto anche il Nuovo Testamento le userà.
La collera di Dio è la rivelazione della sua immensità, della sua grandezza, della sua potenza nei confronti di un uomo, il quale perciò si sente oppresso e soppresso dalla sua vicinanza. Certo, Dio può avvicinarsi all'uomo come "mysterium tremendum" e come "mysterium fascinosum", mistero cioè di potenza e di grandezza, e mistero di dolcezza e di umiltà. Dio è sempre ugualmente grande. Perché Dio non dovrebbe rivolgersi a noi manifestandosi grande proprio nel farsi debole, umile? La salvezza che l'uomo implora da Dio non esige forse che Dio intervenga nella sua vita in questo suo aspetto di umiltà e di debolezza e di povertà?... Se Dio ci salva, come ci può salvare se non nella Croce di Cristo? Se non nell'umiltà e nella povertà di Gesù di Nazareth? Dio si può far vicino all'uomo anche in questo aspetto di umiltà - umiltà che risponde bene alla sua divina grandezza, perché in fondo è un suo attributo complementare.
Dio può manifestarsi grande in quanto ti schiaccia, in quanto è diverso da te, ma anche in quanto Egli medesimo si fa presente nel tuo cuore e ti solleva - Egli entra nell'anima tua e ti libera e ti salva. Se l'essere infranto era già un'esperienza divina, anche l'essere risanato può essere un'esperienza divina. Dio rimane lo stesso: in fondo la differenza è nell'esperienza che l'uomo può avere di Dio. Dio è lo stesso quando mortifica e quando vivifica, è lo stesso quando getta all'inferno e quando solleva al Paradiso, è lo stesso quando opprime e quando risana.
L'uomo implora la salvezza. Nell'esperienza del dolore e della pena, l'uomo si rivolge a Dio per essere risanato. Dio può benissimo avvicinarsi a noi e incontrarsi con noi in modo di non frantumarci, ma piuttosto sollevarci, elevarci a Sé. È precisamente questa esperienza di salvezza che l'anima implora.
Pietà di me, Signore: vengo meno; risanami, Signore: tremano le mie ossa. Non forse anche la sua malattia, il suo dolore, la sua angoscia, la sua disperazione erano in rapporto veramente a un intervento divino? non avevano un rapporto con Dio? Ma l'orante non aveva detto nel primo versetto: non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore. È sempre il medesimo Dio a cui egli si rivolge! Ed è questa una delle più alte rivelazioni che ci possa dare questo Salmo: in ogni esperienza umana l'uomo vive il suo rapporto con Dio. Viva l'uomo nell'umiltà, viva egli nella sofferenza e nell'angoscia, oppure nella sanità e nella gioia, egli vive sempre un'esperienza di Dio. Come è impossibile all'uomo sottrarsi a un suo rapporto con Dio, così gli è impossibile sottrarsi all'esperienza anche di questo rapporto.
Sempre l'anima vive Dio, vive un'esperienza di Dio - del suo furore o della sua salvezza. Vive Dio l'anima nell'inferno, vive Dio l'anima nel Paradiso. Nell'inferno l'anima che cosa soffre se non il peso di Dio? cosa soffre se non l'estraneità di Dio? se non questa incommensurabilità di Dio con l'anima stessa? E che cosa vive l'uomo nel Cielo se non una divina presenza? Sempre Dio è il contenuto dell'esperienza umana - domani dopo la morte, ma ancora quaggiù. In ogni cosa che vivi tu vivi un'esperienza di Dio, un tuo rapporto con Lui.
Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore, dice il salmista. E dice ancora: Pietà di me, Signore: vengo meno; risanami. Essere mortificati, uccisi, immolati, distrutti, consumati, ed essere risanati, resuscitati, salvati, tutto dipende da Dio, tutto ha origine, principio in Lui. In ogni cosa tu vivi dunque questo rapporto con la Divinità.
Si capisce perché il ricordo di tanti nemici si riserbi per gli ultimi versetti; in fondo, i nemici, le malattie non sono che strumento onde si fa presente per l'anima Dio stesso nel suo furore e nella sua collera. Colui che veramente si fa presente nella vita dell'uomo è sempre Dio. tutto il resto non è che strumento della sua volontà, della sua ira o del suo amore, espressione del suo amore.
Risanami, Signore: tremano le mie ossa. Le mie ossa sono spezzate. È come se il dolore avesse veramente spezzato, frantumato, ridotto al nulla l'uomo. È una nuova creazione che l'anima implora da Dio, come se Dio dovesse richiamarlo dall'abisso del nulla. È un uomo scompaginato, distrutto, consumato, i Dio lo deve fare.
L'anima mia è tutta sconvolta, ma tu, Signore, fino a quando...? Fino a quando, Signore, non sarai assente da me? Perché in questa angoscia Lui stesso già ora è presente. Fino a quando Dio vorrà manifestarsi così, come nemico dell'uomo, come grandezza che opprime? L'anima sa che Dio, pur essendo incommensurabile con l'uomo, tuttavia vuole essere il suo Salvatore: e l'esperienza fondamentale di Dio l'uomo non può averla nella sua morte, la deve avere piuttosto nella sua resurrezione, nella sua salvezza; se questa preghiera è vera perché esprime l'esperienza di una condizione terrestre che è esperienza di pena, è vera perché dice il vero rapporto dell'uomo con Dio, il quale, prima ancora di essere l' Infinito, l'Immenso, l'Onnipotente, è soprattutto il Salvatore. L'uomo conosce Dio e deve conoscerlo prima di tutto come suo Salvatore. A Lui si rivolge l'anima come a Colui che, solo, può salvarla; a Lui si rivolge l'anima come a Colui dal quale soltanto può sperare salvezza.
Ed ecco perché il salmista chiede che Dio si svolga. Sembra che nel suo furore Dio si sia come allontanato dall'uomo; ma no, non si e allontanato, perché l'uomo non potrebbe ricevere il rimprovero se Dio nella sua collera non si facesse a lui presente - nel suo furore e nella sua collera, Dio rivolga ancora la sua faccia all'uomo!
Ma questo volgiti vuol dire un'altra cosa. Vuol dire torna. Ritorna quello che eri prima! La malattia, la sofferenza, appunto per questo l'uomo non può tollerarle: perché non sono proprie della sua natura. L'uomo non è stato creato nel dolore, per il dolore, è stato creato invece nella gioia e per la gioia. Ritorna - dice il salmista - o Signore, libera l'anima mia! Ritorna! Il furore non può essere il primo atto di Dio, il primo rapporto che Egli ha avuto con l'uomo: se fosse stato così, l'uomo neppure sarebbe nato, neppure sarebbe stato creato. La creazione importa, non un atto di furore e di collera, ma piuttosto un atto di amore. Ora il salmista richiama Dio a questo suo primo atto, gli chiede di ritornare a quella benevolenza che prima di dette la vita; se ora gliela toglie, se ora l'uomo sperimenta tutto il peso della divina potenza nella sua morte, egli lo prega di fargli sperimentare piuttosto la sua potenza nell'essere risanato, nuovamente creato, come fu creato un giorno da questa stessa divina potenza.
Volgiti, Signore, a liberarmi, salvami per la tua misericordiaSalvami. È questo forse il centro del Salmo: la salvezza. Oh ecco! Per questo i Salmi sono la preghiera dell'uomo: perché sono la preghiera dell'uomo che attende la redenzione, che la vuole, la implora! La preghiera dell'uomo è sempre intercessione, è sempre supplica, almeno fintanto che egli vive quaggiù sulla terra. E cosa può egli supplicare, che cosa chiedere a Dio se non la propria salvezza? E che cosa fa Dio all'uomo se non redimerlo? Quale è l'atto proprio di Dio verso l'uomo se non proprio quello di salvarlo? L'uomo vivrà un'esperienza di Dio nella sua stessa salvezza.
Ma se vivendo sempre una esperienza di Dio nella propria morte l'uomo sperimenta il furore divino, se lo sperimenta nella sua disperazione, nella sua penna, sperimenterà la sua salvezza nella divina misericordia. Ed è precisamente questa esperienza di una salvezza divina che è la vita dell'uomo, la vita dell'uomo anche dopo la morte. Anzi, il salmista non vede una vita dopo la morte: vede la vita di quaggiù e la vede come lode di Dio, sicché l'uomo viva perché Dio sia lodato, sicché l'uomo sia salvato perché egli possa lodare Dio, e non disperi e neppure supplichi e interceda, ma lodi il Signore! Può intercedere, l'uomo, può pregare, può supplicare fintanto che, pur essendo vicino a morire, non sia morto; quando sia morto, l'uomo non potrà lodare il Signore; ma quando egli è veramente vivo nemmeno pregherà e supplicherà - la sua vita sarà pura lode.
La vita del Cielo non conosce più l'intercessione e la supplica, conosce soltanto la lode e il ringraziamento. L'uomo implora questa vita dalla divina misericordia, una vita che non conosca più la sofferenza e la pena, ma divenga e sia pura lode di Dio; che non sia ancora un chiedere, un supplicare, ma sia un puro lodare, un perpetuo ringraziare Colui che è il Salvatore.
La preghiera dell'uomo è la supplica. È un grido che sale dalla profondità dell'abisso, dalla profondità di un'esperienza di dolore e di morte, da una esperienza di umiliazione e di pena. No, non è la lode, non è il ringraziamento la parola propria dell'uomo, ma il gemito e il pianto, il grido di una disperazione umana che si trasforma in preghiera precisamente in quanto è un appello che va al di là di tutte le possibilità umane di ripresa.
È questa la vera preghiera dell'uomo, perché importa la sua vera esperienza e gli dice quello che Dio è anche per lui stesso. Prima di ogni altra cosa l'uomo non può conoscere di sé che questo esperienza di dolore e di morte, e di Dio non può conoscere, prima di tutto, che una misericordia, che una salvezza che solo da Lui egli può sperare.
Tuttavia l'esperienza umana è tale che questa salvezza sembra sempre rimandata a un domani. Quantunque l'uomo si appelli Dio, lo chiami, lo invochi, di fatto egli rimane solo nel proprio pianto. Così tutta la preghiera umana è come lo sgomento di un grido che non ottiene risposta.Ma tu, fino a quando, Signore? Fino a quando mi lascerai solo? Fino a quando tollererai che io sia così oppresso dalla pena? E si è detto già che anche nella sua pena l'uomo non fa che avere una esperienza di Dio: la sua pena, la sua angoscia, non è che la collera di Dio, come la sua salvezza non è che la divina misericordia. In ogni esperienza che l'uomo ha, in fondo egli non vive che un rapporto con Dio. Ma il rapporto che vive con Dio sembra il rapporto di una estraneità, di una opposizione che lo schiaccia, lo deprime, lo disfà. Ma tu, fino a quando, Signore?
Se il centro del Salmo rimane l'invocazione di una salvezza, questa invocazione però tanto più è dolorosa, tanto più è viva, tanto più è spasmodica, direi, quanto più l'esperienza umana sembra escludere questo divino intervento. Ma tu, fino a quando, Signore? Il dolore e la pena sembrano esser tutta la vita: Dio, dal quale soltanto l'uomo può aspettare la salvezza, rimane tuttavia al di là, rimane in silenzio, sembra non ascoltare la preghiera che gli è rivolta. Ma tu, fino a quando, Signore? Molto spesso la parola sembra che non trovi una risposta, è un grido lanciato nel silenzio, che non ha eco. Disperazione pura, sembra. E non è disperazione perché nel fondo di questo grido sussiste la speranza. Salvami! Tutta sconvolta è l'anima mia. Ma tu fino a quando? In questa domanda non c'è tutta l'angoscia umana per il senso di una solitudine, di un abbandono, di una ineluttabile fine, di una rovina incombente che sembra impossibile arrestare?
S'Ma tu, fino a quando, Signore? Fino a quando ci proverai? Fino a quando vorrai rimanere in silenzio? Fino a quando nella tua collera ci vorrai rimproverare, nella tua ira vorrai pesare su noi? Fino a quando il tuo volto non ritornerà verso di noi come il volto di Colui che salva? È vero, dunque, che l'esperienza umana più generale, più universale, è l'esperienza di un Dio che ci sembra estraneo e nemico? È vero dunque che l'esperienza più generale e universale che l'uomo ha di Dio è precisamente il senso di un mistero che grava su lui? Il senso non soltanto di una estraneità ma di una opposizione di Dio con l'uomo onde l'uomo non ha alcuna difesa che si sente come stimolare e opprimere da ogni parte? Ma tu, fino a quando, Signore? Non è in questo grido riassunta tutta l'esperienza umana che giorno per giorno vede rimandata la risposta di una misericordia che l'uomo invoca e sembra non ottenere giammai?
Ma tu, fino a quando, Signore? Dall'istante in cui l'uomo peccò fino all'ultimo dei giorni, non è forse questa la preghiera, l'implorazione, il gemito, lo sgomento, il grido dell'umana miseria? Che cosa fa tutta l'umanità da quel giorno lontano fino a quell'altro giorno che verrà se non implorare una manifestazione di Dio che sollevi l'anima, che salvi uomo dall'oppressione che lo macera e lo distrugge? Ma tu, fino a quando, Signore? Il fino a quando, Signore? non è forse fino all'ultimo giorno? Fino all'ultimo giorno quale è, quale sarà l'esperienza propria dell'uomo se non questa esperienza di pena, se non questa esperienza di morte? La salvezza rimane soltanto una speranza.
Salvami! è il contenuto soltanto di una preghiera, non sembra essere il contenuto di una esperienza positiva. Uomo non vive la sua salvezza, vive la sua rovina - non vive la sua vita ma la sua morte. E pure a non è forse vero che l'uomo può lodare Dio soltanto in quanto egli vive? Certo, l'uomo, nell'Antico Testamento, chiedeva la vita soltanto quaggiù: l'averno, cioè la vita dopo la morte, non può dare all'uomo la possibilità di lodare Dio, secondo l'antropologia dell'Antico Testamento. Ma non è un legittimo approfondimento di questa preghiera la consapevolezza che noi abbiamo che la morte di oggi a un suo seguito nella morte di domani, in una morte che veramente esclude ogni lode divina? Non esclude ogni esperienza di Dio, perché l'inferno è una esperienza di Dio, una esperienza negativa, una esperienza di questa collera, di questa estraneità, di questa opposizione onde una creatura dovrà sopportare tutto il peso di Dio ed esserne frantumata e distrutta eternamente. Se non esclude ogni esperienza di Dio, l'inferno esclude però la lode. E, invece, che cos'è la vita se non la lode divina?
Cos'è dunque la lode? Importa il riconoscimento di Dio? Ma anche l'inferno riconosce Dio: lo riconosce come divina potenza, come divina giustizia. La lode di Dio è anche il ringraziamento per la salvezza. Alla vita non sarà possibile soltanto una lode indiscriminata, ma la lode per il Dio Salvatore, cioè il ringraziamento per un bene ottenuto.
Noi non possiamo lodare Dio per quello che Egli è in Se stesso; noi possiamo lodarlo per come Egli si manifesta a noi, nella nostra vita. Ora, la lode di Dio non potrà essere che per una nostra salvezza. È certo un riconoscimento di Dio anche la morte dell'uomo nell'inferno: un riconoscimento della Santità di Dio. Ma non si può chiamare una lode, e non è nemmeno un ringraziamento, questo.
Nessuno tra i morti ti ricorda. Chi negli inferi canta le tue lodi? Il salmista non dice soltanto che nell'inferno non è possibile il ringraziamento: dice che negli inferi non è possibile nemmeno il ricordo di Dio. Quello che l'orante teme, con la morte, non è neppure soltanto la pena, il castigo, la morte, è anzi l'oblio totale di Dio. È possibile questo? Si diceva che anche l'inferno è un'esperienza di Dio, ma qui il salmista sembra negarlo. L'inferno è, sì, una esperienza di Dio, ma un'esperienza negativa, l'esperienza di una assenza, di una estraneità di Dio, è l'esperienza di una solitudine onde Dio si è come dimenticato dell'uomo, e l'uomo sua volta non ricorda più Dio, non lo conosce più.
Ed ecco quale è l'esperienza umana che fa prorompere l'orante in una così angosciosa preghiera, in un grido così doloroso: Sono stremato dai lungi lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, irroro di lacrime il mio letto. I miei occhi si consumano nel dolore, invecchio fra tanti miei oppressori.. È dolore, è angoscia. Sembra che non si tratti soltanto di dolore morale, ma di dolore fisico, e sembra d'altra parte che sia il dolore fisico quello che più umilia l'uomo, che più è contrario alla nostra natura, che dall'abisso della nostra natura fa sorgere più alto il grido dell'angoscia e della disperazione.
Nel Salmo si parla anche di nemici: vuol dire che al dolore fisico si aggiunge anche una persecuzione. Non è dunque soltanto una malattia la pena che è causa di questa preghiera, che è motivo di questa angoscia, di questo grido di supplica. Non è dunque soltanto una malattia, ma non è escluso che sia un dolore fisico. Di per sé, giustamente, la descrizione è piuttosto generica: dice uno stato di protrazione e di angoscia, ma non dichiara che pena essa sia, non ne dice le ragioni. Ritengo tuttavia che si debba pensare piuttosto a un dolore fisico e anche se il dolore morale non è escluso. È tutta la pena e l'angoscia umana che in questo Salmo sono il motivo della preghiera umana. Pena fisica e pena morale, persecuzione mossa dal di fuori e oppressione nell'intimo... Comunque, ogni pena, qualunque essa sia, non ha altra causa, in ultima analisi, che la collera di Dio, l'ira di Dio. L'uomo, qualunque cosa viva, non vive che il rapporto con Lui.
Si può dire che il Salmo termini qui. Sembra piuttosto meccanico quanto segue a questa implorazione, a questo grido; sembra piuttosto un Deus ex machina; sembra piuttosto una formula incantatoria, il Salmo, negli ultimi versetti. Non si può dire che Dio sia così pronto ad accogliere la preghiera che, una volta l'uomo l'abbia elevata, sia subito esaudita da Dio. Questo non dice che Dio non ascolti la preghiera: ci fa capire come dobbiamo interpretare i versi che seguono, perché di fatto, dopo una esperienza così viva dell'umano dolore, il passaggio sembra veramente troppo brusco, nei versetti che seguono, a descrivere la salvezza operata da Dio. Via da me voi tutti che fate il male, il Signore ascolta la voce del mio pianto. Il Signore ascolta la mia supplica, il Signore accoglie la mia preghiera. Sono come i due atti fra i quali si inserisce la benedizione sacerdotale o l'offerta del sacrificio di propiziazione nel Tempio. Il Salmo è una preghiera liturgica. Prima, l'implorazione dell'orante, poi, il sacrificio o la benedizione sacerdotale, e finalmente il ringraziamento che quasi obbliga Dio, in qualche modo, ad ascoltare la preghiera dell'orante. Sembra dire l'orante: "Signore, io ho totale fiducia in Te che se Tu ora non rispondi a quanto ti ho chiesto, sei Tu che manchi: manchi alla mia fiducia e non stai ai patti".
Gli ultimi versetti del Salmo non hanno soltanto questo significato: ci dicono anche la forza che effettivamente avevano nell'antichità le formule deprecative - la parola scatena una forza di per se stessa. La parola umana in qualche modo è come la parola di Dio: è effettrice, è efficace di per sé. Perciò, se la preghiera è innalzata Dio, indubbiamente ottiene, e in tal modo ottiene che l'orante già viva la sua salvezza futura.
Ma quando arriverà questa salvezza? Le parole che il Salmo aveva detto all'inizio rimangono vere: ma tu, Signore, fino a quando...? La salvezza sarà, ma a quando viene rimandata? Viene rimandata ad oltre la fine, al di là della fine. L'esperienza umana quaggiù nella vita presente non sarà altro che esperienza di dolore e di morte. Dio ci farà salvi, ma la salvezza rimane quaggiù sempre una salvezza nella speranza. Sì, gli artefici di iniquità andranno lontano dall'uomo, saranno scagliati lontano; sì, Dio ascolterà veramente la voce del pianto umano; sì, veramente il Signore accoglierà le preghiere dell'uomo... ma quando, Signore? Tutto è rimandato aldilà. La preghiera non cessa di essere divinamente efficace, non cessa di essere divino scongiuro, scongiuro di per sé efficace sul cuore di Dio. Tanto efficace che l'orante già vede sgominati i suoi nemici, già vede la propria salvezza e la sperimenta - ma la esperimenta nella speranza.
Ma tu, Signore, fino a quando...? Ecco la parola veramente più misteriosa, più viva, più dolorosa di tutto il Salmo - la più vera, perché l'esperienza umana di quaggiù è esperienza soltanto di dolore e di morte, che però non è senza speranza. Ecco perché il dolore umano può divenire e diviene continuamente preghiera: la disperazione umana si trasforma in un grido di implorazione a Colui che non risponde ora, ma che risponderà tuttavia un giorno, anzi, al di là di ogni giorno.
Ma tu, Signore, fino a quando...? E così, la preghiera del salmista potrà essere la preghiera dell'uomo fino alla fine dei tempi, e lo sarà effettivamente.
Tante volte mi sono domandato come si fa a dire che la preghiera è veramente efficace se noi la ripetiamo ogni giorno? Nostro Signore nel Vangelo dice: "Qualunque cosa chiederete al Signore, Egli ve la darà". Ma è tanto che si chiede la salvezza, è tanto che si chiedono tutti questi beni, e ci vengono sempre rifiutati, perché già li abbiamo chiesti e anche oggi li chiediamo e domani lo stesso. Ma tu, Signore, fino a quando...? Questa è la grandezza del Cristianesimo! Il Cristianesimo riconosce la condizione umana di pena, ma ha la forza di trasformare questa pena in un grido di preghiera che durerà fino alla fine: e grido di preghiera e di angoscia che è rivolto però a un Dio che, se rimane in silenzio, tuttavia ascolta. Tutte le risposte parziali che Dio può darci non sono la risposta definitiva che l'anima spera. Così ogni preghiera dell'uomo importa questo grido che più di ogni altro riassume ogni preghiera: Ma tu, Signore, fino a quando...?
Questo grido che noi ritroviamo nei Salmi, lo ritroviamo anche nell'Apocalisse. Nell'Apocalisse non sono più gli uomini che vivono nella pena che chiedono a Dio " fino a quando": saranno perfino i santi che vivono già nel Cielo, saranno i martiri: "Fino a quando, Signore, ci lascerai invendicati"? Oh, veramente tutta la vita religiosa è un procedere, è un aspirare verso l'ultimo giorno, è un volere, è un chiedere, è un implorare che Dio veramente si manifesti e che i nemici dell'uomo siano svergognati e siano confusi e sgomenti, e voltino le spalle e cadano come nel nulla; sarà un chiedere che Dio si manifesti nella sua salvezza, nella sua vita, e trasformi l'umana angoscia, l'umana implorazione, finalmente, nella sua lode eterna, in un eterno ringraziamento.

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