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mercoledì 23 novembre 2011

Inizio del cammino: l'esperienza universale del peccato

Inizio del cammino: l'esperienza universale del peccato

Il primo libro dei salmi, come abbiamo detto, va dal primo al quarantunesimo salmo compreso. E si è detto anche che l'unità del Salterio non è logica, il Salterio non descrive un cammino continuo, ma il processo di una vita, anzi della Storia sacra del mondo. Tutti gli elementi di questa storia sono presenti fin dal principio del Salterio, ma naturalmente alcuni elementi prevalgono su altri.
Mentre all'inizio del Salterio è espressa l'angosciosa preghiera dell'uomo nell'assenza di Dio, al termine l'angoscia è come definitivamente scomparsa: non rimarrà allora che la pura lode nella presenza di Dio. La solitudine dell'uomo non è totale, la sua notte non è piena; eppure quello che distingue il primo libro è l'esperienza della notte. Il giusto sembra abbandonato. L'unica sua forza è il suo grido, ma egli chiama un Dio che tace, che rimane in silenzio. La presenza di Dio nel primo libro dei salmi, tranne poche eccezioni, è solo nella preghiera del povero che chiama Dio, che nella sua innocenza conculcata vive una preghiera che non ha risposta. Il mondo è tenebra, gli uomini sembrano strumento del male. Di fronte alla moltitudine, uno solo: il povero, l'umile, il perseguitato, sembra essere dalla parte di Dio. Paurosa, in questa angoscia del povero perseguitato, l'assenza: Dio non parla. Il silenzio di Dio sembra autorizzare l'empio, anzi tutto l'esercito del male, a proclamare che Dio non c'è (Sal. 10,4; 14,1; 53,1). Tre volte ritorna in questi salmi quest'espressione, ed è una sfida, è un riconoscimento della vittoria del male che crede di aver già vinto, di essere già in pacifico possesso del Regno. È una proclamazione ufficiale, è sicurezza di chi crede di aver in mano ogni potere. L'universo è contro il giusto, contro il povero, contro il pio che prega. Più paurosa ancora dell'assenza di Dio, sembra questa presenza del male che non solo riempie l'universo del salmista, ma lo domina.
Uno di questi salmi sarà quasi letteralmente citato da san Paolo, nella lettera ai Romani, per definire lo stato del mondo prima del Cristo (cf. Rom. 3,10-12). È un mondo governato dal male. Neppure un giusto, uno solo. Dio guarda dall'alto, ma Dio guarda soltanto dall'alto: non discende, non entra in questo mondo abbandonato all'empietà e all'ingiustizia. Sembra che Dio non prenda le difese del povero, di colui che lo prega.
I salmi non descrivono, ci danno la testimonianza di un'esperienza religiosa. La vita religiosa in senso autentico, vero, in senso personale e profondo, nasce da questa esperienza di notte, di solitudine, di angoscia. È la notte fonda di un mondo che sembra esser precipitato nel caos, essere soltanto a servizio del male. Com'è che il povero, com'è che l'uomo può rimanere fedele a Dio? Miracolo in questa tenebra è proprio l'umile semplicità, la fedeltà dell'oppresso che prega. L'unica presenza di Dio, in questa prima parte dei salmi, sembra essere soltanto la preghiera del povero. Dio non è presente che nella preghiera dell'uomo che lo invoca, lo chiama, in una preghiera ansiosa, angosciosa che vuole forzare Dio a uscire dal suo silenzio. Ma Dio esce dal suo silenzio solo in questo grido. Alla preghiera non risponde nessuno, perché già la preghiera suppone l'intervento. In tutto questo buio, questo appello a Dio è l'unica luce. Dio vive nell'agonia dell'uomo, nella sua speranza. La vita religiosa inizia dall'esperienza del potere universale del peccato. L'orante è solo, in un mondo di peccato. È solo perché, anche peccatore, Dio già lo ha separato dal mondo del peccato e dell'impurità. Solo, egli ora non ha altra difesa che la sua preghiera. Così si deve fidare di un Dio che tace, eppure è presente nel suo cuore, è vivo nell'agonia che l'opprime. E l'uomo si affida a Dio nonostante tutto; contro ogni apparenza, pur non ricevendo alcun soccorso sensibile tranne la speranza che nutre la sua preghiera. È una cosa di una grandezza impressionante già questa esperienza religiosa. Da una parte il potere del mondo che è il potere stesso del male, dall'altra la debolezza della preghiera a un Dio che sembra rimanere lontano. L'oppresso non ha alcun potere, (il mondo gli è nemico, gli uomini gli sono ostili; solo, disprezzato, conculcato. In due salmi del primo libro, perfino Dio lo respinge, nemmeno Dio lo risparmia; perfino col peso della sua ira Dio sembra voler pesare su lui e schiacciarlo. Ma Dio è in questa preghiera dolorosa che tuttavia continua, in quest'umile fedeltà che non si appoggia su nulla. Nessuna preghiera potrebbe essere più pura, più alta, nessuna potrebbe esprimere un'adorazione più grande. E questa preghiera è la parola più vera dell'uomo, quella che con maggior autenticità rivela il suo stato. Del resto è difficile trovare una preghiera che esprima un'umiltà più grande, una più pura fiducia.
Fin dall'inizio la preghiera dei salmi è la preghiera del Cristo e l'uomo la fa sua soltanto nella misura che è in lui. Nella misura che è in Cristo, l'uomo di fatto deve conoscere la solitudine della croce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Sal. 22,2). È questo i1 grido che risuona nel primo libro dei salmi e ne dice di più il contenuto. Egli solo poteva gridare così, nella fedeltà al Padre, nell'abbandono perfetto alla sua volontà, pur nell'esperienza più amara della sua solitudine, nell'amore verso coloro che pur l'opprimevano da ogni parte. Solo il Cristo poteva trasformare in un grido di preghiera la disperazione umana più profonda, l'agonia senza conforto.
L'uomo che abitualmente non ha coscienza del suo stato non può far sua questa preghiera; egli accetta l'assenza di Dio e cerca di sottrarsi al peso della sua solitudine, in una vita di dissipazione abituale e di superficialità. Ma chi vive umilmente deve provare lo sgomento di una sua solitudine, deve provare a volte lo smarrimento supremo: come se nulla fosse, come se nulla avesse senso. E Dio ci chiede anche in questa solitudine, anche in questo sgomento di fargli credito, di credere in lui, di rimanergli fedeli.
Quello che vuole la preghiera dei salmi è che l'uomo non voglia illudersi, distrarsi da se stesso, ma viva in profondità questa esperienza di pena. L'esperienza umana è la stessa esperienza del Cristo: Dio non ha assunto soltanto la natura dell'uomo, ha assunto tutta la nostra vita e l'ha fatta sua. Non vi è dolore, non vi è amarezza, non vi è terrore che egli non abbia conosciuto; non ha conosciuto il peccato, ma ha sopportato tutto il suo peso.
Nel Salterio è il giusto che prega, ma il giusto si riconosce peccatore. E così prega il Cristo perché si è fatto uno con l'uomo e attende ora che l'uomo si faccia uno con lui, trasformando la sua agonia in preghiera. L'uomo può trasformare la sua angoscia nella preghiera del Cristo, se vive realmente il suo stato, la sua condizione umana. L'uomo deve essere consapevole della sua pena, deve conoscere la gravità del suo stato ed è soltanto nel momento del pericolo che lo minaccia che l'uomo può invocare l'aiuto. Come potrebbe pregare se non realizza, se non ha coscienza del suo male? Se l'uomo vivesse realmente con tutta la profondità di cui è capace, l'esperienza di ogni giorno, allora, nell'esperienza di ogni giorno, vivrebbe l'esperienza stessa del Cristo; perché egli solo, che è Dio, ha realizzato fino in fondo l'esperienza umana; egli solo l'ha realizzata, l'ha vissuta fino in fondo non solo nella gioia pura di un'adesione alla divina volontà, ma anche nell'agonia del Getzemani, nella desolazione della Croce. Egli solo si è gravato del peso, dell'angoscia del peccato; ha voluto conoscere il veleno dell'odio, tutto il potere del male.
I salmi prima di tutto ci richiamano a vivere in profondità la nostra umile vita. Non vi è una vita umana tanto umile e dolorosa che non sia immensa, perché la grandezza di una vita non si misura dagli avvenimenti ai quali l'uomo può collaborare: anche la più umile vita ha una profondità abissale. Vivere un nostro rapporto con il prossimo, vivere una nostra impotenza a realizzare la presenza di Dio dovrebbe essere per noi motivo di gioia ineffabile e motivo di tormento senza fine, ma noi viviamo superficialmente, senza prender coscienza di nulla. Ci lasciamo portare dagli avvenimenti, viviamo al di fuori di noi. Vivere per l'uomo è essenzialmente entrare in rapporto con Dio! Finché non vive questo rapporto, egli ancora non è uomo. Può viverlo nella preghiera, può viverlo nel rifiuto e nella bestemmia, solo, comunque, questo rapporto salva la sua dimensione. Gli uomini, in generale, non vivono e per questo nemmeno sanno pregare realmente. È nella preghiera che essi possono realizzare fino in fondo se stessi. Sono nel peccato e non sentono il suo peso; il peccato li trascina giù, ma soltanto quando la morte li avrà precipitati nell'abisso, si sveglieranno dal loro letargo. Non realizzano né ciò che è lo stato di grazia né il loro peccato, ma non realizzano neppure i valori umani nei quali pur dicono di credere: l'amicizia, l'amore, la gioia. Perfino si sono fatti insensibili alla sofferenza: l'unico che può insegnarci a soffrire è Gesù. Egli non si è difeso: egli ha vissuto davvero la nostra vita. Nel Cristo noi impariamo ad essere uomini. Nella preghiera dei salmi è lui che veramente vive tutta la nostra vita e in questa medesima preghiera noi stessi impariamo a vivere veramente la nostra vita.
La dimensione propria dell'uomo è il paradiso o l'inferno: non sono due luoghi esterni all'uomo, sono piuttosto il suo stato definitivo, la sua dimensione. Per questo l'uomo che vive davvero, non vive che la speranza della gioia divina o l'angoscia che misteriosamente anticipa la pena del dannato. Ma anticipando l'angoscia egli, oggi, si salva se la sua angoscia diviene preghiera.
L'esperienza del male è così la prima grande esperienza religiosa. Nel suo cammino l'uomo non ha altra luce che la fede, non ha altra forza che la speranza, ma questa speranza sembra non appoggiarsi su nulla e la fede non sembra avere altra garanzia che la tenebra: ogni segno sembra scomparso: il segno è la stessa preghiera dell'uomo se rimane fedele. E chi può dire la grandezza di un'anima che in questa notte rimane fedele? Siamo troppo abituati al linguaggio convenzionale della pietà. La parola di Gesù sulla Croce ci scandalizza: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? (Sal. 22,2). Forse non abbiamo il coraggio di ripeterla; ci sembrerebbe di offendere Dio. Il salmista vuole che Dio non dorma, che si risvegli. Il suo linguaggio sembra rasentare la rivolta. In realtà la sua parola dice soltanto l'intensità della sua angoscia divenuta preghiera. L'angoscia dell'uomo è immensa senza scampo la sua rovina e Dio è come non fosse. L'uomo deve rendere testimonianza; di che cosa? Non lo sa. Sembra che egli renda testimonianza soltanto della sua angoscia, della sua solitudine. In realtà rende testimonianza di Dio se l'angoscia, se l'oppressione in cui vive, si trasforma per l'uomo in un appello. E la preghiera è testimonianza della presenza di Dio sulla terra. L'uomo non deve pretendere un altro appoggio: Dio lo soccorre, lo difende, lo ascolta dandogli precisamente questo potere. Come Dio potrebbe liberare l'uomo quaggiù se l'uomo si trova in un mondo nemico? L'unica difesa di Dio è quella di alimentare la fede di colui che prega, di non permettere che venga meno la sua speranza, anche se sembra sempre delusa. Di qui si parte il cammino dell'uomo verso la salvezza, verso il Regno di Dio.
All'inizio l'uomo conosce Dio nella misura in cui si sottrae, nella misura che l'uomo non vede più nulla, non ha che l'esperienza della sua solitudine. Vivere in profondità questa vita di fede, è ciò che vuole la preghiera dei salmi. A noi questa preghiera sembra gratuita, non vera, perché non conosciamo l'oppressione di un mondo ostile, non avvertiamo il pericolo che ci minaccia, non ci sentiamo soli. Ci sembra che non sia necessario ordinariamente ricorrere a Dio per essere salvati; eppure e vero che l'uomo, chiamato ad essere re della natura, è estraneo alla natura; è vero che la storia stessa è estranea all'uomo. Egli si sente come messo da parte, gli sembra che la storia si muova per impedire il suo cammino, la sua realizzazione. Tutto sembra come affidato al caso e, quando anche qualche cosa può andar bene, non riesce a capire perché, non riesce a vedere un ordine, a riconoscere un disegno. Si sente affidato al caso come un naufrago alla forza della tempesta. Che cosa può contro la forza del male? L'uomo è in un mare agitato contro il quale vano è ogni suo potere. L'unico potere dell'uomo è la preghiera, perché la preghiera trae Dio nella lotta. Dio si fa presente quando l'uomo nella coscienza di una sua impotenza a resistere alla forza del male, grida a Dio la sua angoscia e lo invoca. L'angoscia, la povertà dell'uomo divengono il segno di Dio. Sembra strano che in un mondo creato da lui, solo la povertà, l'umiltà, la sofferenza portino il segno di una sua presenza di amore. Così dunque il peccato ha devastato la creazione di Dio? Noi sappiamo che il dominio del male non è definitivo e totale. Eppure apparentemente lo è. È come se Dio, cacciato dal peccato dell'uomo, ritornasse segretamente nel cuore del mondo solo attraverso l'angoscia dell'uomo e l'umiltà della sua preghiera. Il dominio del male non è definitivo e i salmi stessi ci dicono che il male serve ai piani di Dio; ci dicono che il male invece di operare la rovina del giusto, non opera che la sua stessa rovina. È una delle dottrine sulle quali insistono di più: il male che l'empio, il fraudolento, il nemico voleva, è ricaduto su lui: ha scavato la fossa e c'è precipitato; voleva la maledizione e la maledizione lo distrugge. L'uomo non può in definitiva compiere il male se non a se stesso. Colui che è oppresso, che è conculcato ha Dio dalla sua parte; chi opprime e conculca non rovina che sé. Sembra che sia necessario che il peccato esaurisca tutta la sua forza mortale: allora non rimane che Dio. Il male potrà sfogare tutta la sua perfidia finché non si sarà esaurito, ma il male non potrà esaurire la pazienza e l'amore di Dio. L'odio avrà pur sempre una fine, non è infinito come l'amore. Così sembra opportuno che l'odio in qualche modo si sfoghi fino in fondo per essere vinto.
La creatura non avrebbe conosciuto fino in fondo la realtà misteriosa dell'amore divino e il potere della sua grazia se Dio non avesse permesso che conoscesse prima la possibilità reale di male e di morte che essa portava in sé. Permettendo al male di potersi sfogare, di potersi esprimere sino in fondo, nella sua capacità di rovina, Dio avrebbe poi rivelato più splendidamente la onnipotenza dell'Amore che salva. Dall'abisso più fondo egli avrebbe così sollevato la sua creazione. È da questo abisso che sale la preghiera dei salmi. Ed è questa l'esperienza fondamentale che ci dà il primo libro dei salmi. In questo primo libro sembra che il potere del male non abbia misura. L'orante è oppresso dal male: insidiato e perseguitato dagli empi, oppresso dall'angoscia e dalla malattia, abbandonato da Dio. Il male si accanisce contro di lui, Dio stesso si accanisce contro di lui. L'uomo che non ha scampo dagli elementi ed è braccato dagli uomini, non ha, non trova rifugio; egli deve anche temere il furore di Dio. Dio non perseguita il malvagio, il malvagio da se stesso rovina: ha scavato la fossa, vi cade; la rovina che ha preparato, su di lui stesso ripiomba.
Se Dio infierisce, infierisce contro colui che lo prega. La condanna che teme è il primo intervento di Dio in questo mondo di tenebra. Ma egli scarica la sua ira – come dicono i salmi – contro colui che lo prega e nello stesso tempo lo sostiene perché nella prova non debba venir meno in lui la speranza. L'unica luce in molti salmi del primo libro è la preghiera, una preghiera di angoscia e di umiltà. L'elemento primo della vita religiosa è la preghiera. Dio è presente nel mondo del peccato e della morte perché è lui che fa possibile questo grido, questo appello alla sua onnipotenza.
Ogni esperienza vera, autentica, si parte di qui: dalla coscienza che ha l'uomo della sua condizione reale: il mondo è schiavo del male. La condizione umana è condizione di pena, è condizione di miseria e di morte; l'uomo si sente come straniero in un mondo ostile. Anche se non è totale né definitiva la schiavitù del mondo nei confronti del male, il male ha tuttavia una sua universalità che apparentemente s'impone. Dal cielo Dio guarda: non c'è chi faccia il bene, neppure uno solo (Sal. 14,3). Da ogni parte dissolutezza, ingiustizia, oppressione; ognuno è complice del male, ogni uomo affonda in questa melma da cui solo l'onnipotenza divina lo può trarre a salvezza. Non vi sono giusti e peccatori, ma coloro che negano e coloro che pregano Dio e implorano il suo aiuto che li salvi.
È l'esperienza di una notte che sembra senza luce, Dio non è sceso ancora in mezzo agli uomini; Dio sembra rimanere in cielo – eppure egli è già presente segretamente nel cuore dell'uomo nella sua agonia. Sembra ignorare colui che gli è fedele e lo prega. Ma non è così: Dio stesso prega nella sua preghiera. Che Dio prega con lui l'uomo non lo sa, eppure in questa sua fede che vince la disperazione, in pesto .suo grido che vince il silenzio, già Dio è realmente presente. Dio non entra nella creazione devastata dal male, che attraverso l'uomo che prega. Nella notte fonda, nel silenzio di morte che copre la creazione intera, la preghiera di questo orante, che è peccatore come tutti, solidale con gli altri nel peccato, è segno di una presenza, è il sorgere di una pallida luce. Contro tutti i popoli un solo popolo, anzi contro la moltitudine dei nemici, Uno solo che prega: Uno solo, oppresso da tutti. Ma proprio questi, che è oppresso, perseguitato, per tutti soffre e li salva.

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