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mercoledì 23 novembre 2011

La lotta, il giudizio, la lode

La lotta, il giudizio, la lode

Il contenuto dei salmi è la storia dell'uomo e del mondo come dramma, come guerra del male contro il bene. Ma vi è una soluzione a questo dramma che non è nella storia: è il giudizio di Dio. Come Dio non ha bisogno di vincere, così non ha bisogno di accusare e di condannare: basta che egli si manifesti. Tutti i salmi attendono questa rivelazione di Dio che per sé necessariamente sgomina il male e lo distrugge. Tutto tende verso la teofania: la manifestazione di una sovrana potenza che agisce facendosi semplicemente presente. Dio solo è, egli solo rimane. Se egli si rivela, se egli si manifesta, tutto quello che non è lui, cade. La sua azione è infinitamente potente, è come il sole che dissipa la nebbia, la consuma.
E di fatto tutta la realtà, in quanto si oppone a Dio, non può essere che nebbia, più irrealtà che realtà, menzogna e vanità che la realtà infinitamente potente dell'Essere divino rivela precisamente come 'nulla'. Il dramma della storia attende il giudizio; quel giudizio che non può distruggere i poveri, i perseguitati, gli innocenti, perché essi sono dalla parte di Dio. Essi non possono temere il giudizio, anzi hanno parte con Dio alla sua vittoria. Al termine, la lode divina.
Lo svolgimento del dramma così implica tre atti. Primo atto: la guerra nella quale sembra sia dato ogni potere al male. Secondo atto: il giudizio che manifesta la vanità, il nulla del male, nella presenza dell'eterna realtà divina. Il giudizio, d'altra parte, suppone anche la salvezza di coloro che si sono messi con Dio, che hanno confidato nel Signore e si sono abbandonati a lui. Terzo atto: da questa umanità redenta, da questa creazione che il giudizio divino non ha distrutto ma, piuttosto, in qualche modo, fatto sussistere in Dio, il canto della lode che è la vita celeste.
Una divisione dei salmi nei loro generi letterari può avere un valore, può essere perfino necessaria per un'esegesi letterale, ma è ben poco per rivelarci il senso ultimo dei salmi. Certo ci sono inni e ci sono suppliche, ci sono i salmi della regalità e ci sono i salmi della città santa di Gerusalemme; ci sono i salmi del pellegrinaggio e vi sono epitalami. Ma i generi letterari dei salmi non possono essere un criterio alla interpretazione del Salterio nella sua unità. Se prendo un salmo togliendolo al suo contesto posso, sì, e debbo anche riconoscere il genere letterario al quale appartiene, ma il salmo stesso non mi dice tutto il suo segreto che in un rapporto con i salmi che lo precedono e lo seguono, secondo quell'ordine che non può derivare da un'arbitraria armonia, ma che deriva dal posto che occupa nel libro. Posto che non è voluto dall'uomo, ma è voluto da Dio che ha ispirato l'agiografo nel raccogliere questi carmi, queste composizioni poetiche per la formazione 'del libro'.
Più precisamente: il riconoscimento della ispirazione del Salterio è praticamente il riconoscimento della sua unità. Solo nell'unità della Bibbia l'esegesi cattolica trascende la parola dell'uomo e raggiunge, attraverso di essa, la Parola di Dio. Dimenticare che tutta la Bibbia ha Dio come unico autore principale, è compromettere la sua autentica interpretazione. Il filologo può bene interpretare la parola di un documento umano di storia o di poesia — il filologo come tale non potrà mai scoprire Dio —, ma solo il credente attraverso i singoli documenti, raggiunge, nell'unità della Bibbia, Dio nell'unità della sua Parola. Quello che è vero per l'interpretazione di tutta la Bibbia, tanto più si manifesta nell'interpretazione del Salterio. Ogni salmo è ispirato, tuttavia non rivela fino in fondo il suo senso, che nell'unità del Salterio. Togliere dal Salterio ogni salmo, considerarlo da solo a solo direttamente con i salmi che appartengono al suo stesso genere letterario, escludendo il rapporto che ha nell'unità del Salterio, è far violenza alla Parola di Dio. Del resto anche la parola di un poeta non è interpretabile che nell'unità di tutta l'opera sua. E frequentemente una poesia svela tutto il suo senso solo nell'unità di una vita cui pose il sigillo la morte. Proprio per questo è la vita ed è soprattutto la morte di Cristo, Parola di Dio incarnata, il vero e ultimo senso delle Scritture. Proprio per questo il Salterio medesimo riceve la sua interpretazione autentica nelle labbra del Salvatore, ma prima ancora i singoli salmi ricevono la loro interpretazione autentica, quale Parola di Dio, nell'unità di quella raccolta che Dio stesso ispirò e consegnò prima alla Sinagoga e quindi alla Chiesa.
I salmi hanno una loro unità nel Salterio. Ci rivelano il loro segreto proprio nell'unità che essi hanno acquistato nell'opera ispirata. Il Salterio, secondo il canone ebraico, si divide in cinque libri che corrispondono ai cinque libri della Torah. Noi dobbiamo vedere quali sono questi libri e dobbiamo vedere che cosa voglia dire questa divisione.
Il Salterio, nel canone cristiano della Bibbia, appare ancora diviso nei suoi libri. Ma se la Bibbia porta questa divisione, in generale non vi si dà troppa importanza. Dobbiamo allora attenerci a quella divisione? e in che essa consiste? oppure dobbiamo attenerci a qualche altra divisione?
Come per il libro dei Proverbi, noi potremmo attenerci anche ad altri criteri, oltre a quello proprio della tradizione ebraica; si potrebbe dividere secondo le raccolte che hanno costituito l'opera definitiva. La divisione dei salmi potrebbe farsi seguendo questo criterio, cercando cioè di individuare le singole raccolte che hanno dato luogo alla raccolta definitiva. Secondo la Bibbia di Gerusalemme, sarebbero tre queste raccolte: la prima va fino al salmo 41 e questa prima raccolta si identifica anche con il primo libro della Bibbia ebraica. Quello che caratterizza questa prima serie è che è formata dai salmi davidici, non che tutti siano o debbano pensarsi composti da David, comunque sarebbero stati tramandati, già nell'ebraismo antico, sotto il nome di David. A questa raccolta, segue, secondo la Bibbia di Gerusalemme, una seconda, che va fino al salmo 90 non compreso, ed è una raccolta piuttosto composita. Si deve all'ambiente sacerdotale ed è opera di sacerdoti e di cantori. Tra questi salmi ci sono tuttavia anche composizioni attribuite ad altri autori che non erano sacerdoti e non attendevano alla liturgia, ma furono inserite in questa raccolta precisamente perché, pur essendo fondamentalmente una raccolta di composizioni liturgiche, essa ha tuttavia riunito tutte le composizioni ispirate che avevano per tradizione il nome di un presunto autore. Così tra questi salmi vi è un salmo attribuito a Salomone e un altro salmo attribuito a Mosè, che è precisamente l'ultimo di questa raccolta. Poi vi è l'ultima raccolta, dal salmo 90 al 150, che non porta il nome degli autori dei salmi. L'ultima raccolta, in generale, è senza nome d'autore anche se alcuni pochi salmi sono attribuiti a David e sarebbero quelli che non erano entrati nella prima serie.
Come per la Torah, ci si potrebbe poi attenere al criterio dell'uso del Nome e distinguere i salmi che danno a Dio il nome di Jahveh e quelli che gli danno il nome di Elohim ed è questa una divisione che risponde ai criteri degli esegeti di oggi. È vero, nei primi salmi Dio viene chiamato Jahveh, negli ultimi Dio si chiama Eloim e si chiama ugualmente anche Jahveh: la divisione non è netta.
Queste divisioni non ci danno modo di penetrare nell'unità del Salterio. Se Dio ha voluto raccogliere i salmi in un libro solo, i salmi hanno avuto un certo ordine che è voluto da Dio; da questo ordine, di fatto, deriva l'unità del Salterio.
Riteniamo che sia più esatto dividere i salmi in cinque libri, secondo la tradizione ebraica, perché gli altri criteri di divisione dipendono da una ricerca filologica o storica o letteraria, che non tien conto della ispirazione divina.
L'ispirazione, certo, riguarda le singole parti di un libro, ma tanto più riguarda il libro intero. Dobbiamo mantenere fermo questo principio che anche il libro, come tale, nella sua unità, è ispirato. Dio ha ugualmente ispirato coloro che hanno composto i singoli carmi e l'agiografo che li ha raccolti, così da dare all'opera un'unità. L'unità del Salterio può anche non apparire: la composizione di un libro nella tradizione ebraica non obbedisce certo ai criteri cui obbedisce la composizione di un libro nella tradizione classica, tuttavia anche nell'ebraismo risponde a un fine preciso, pure se meno evidente. L'ordine del Salterio già la esprime sufficientemente: l'inizio e la fine di esso non sono fortuiti né casuali.
Il Salterio s'apre con il proporre due vie: la via dell'empio e la via del giusto, ma termina nell'unica lode che sale a Dio da tutto il creato. Non la lode di un uomo, di un popolo, ma la lode che sale a Dio da tutta quanta la creazione rinnovata, da tutta quanta l'umanità redenta. Grosso modo già questo accenno rivela l'unità di un disegno. Dobbiamo tuttavia considerarlo più attentamente, perché il valore dei salmi nel loro insegnamento deriva necessariamente da quest'unità. Per parte mia debbo dire che ho capito ben poco dei salmi finché non ho letto l'introduzione di Chouraqui al Salterio. In nessun commento forse si è stati fedeli e rispettosi dell'ordine che Dio aveva dato a questi canti. Si sono strappati dal loro contesto per ristabilirli in un ordine e in un'armonia stabiliti arbitrariamente dagli uomini e non dalla mente di Dio. L'esegesi vera per un credente, il quale vuole rispettare l'ispirazione, non può esimersi dall'umile dipendenza dal testo. Non possiamo trasformare le cose per far loro dire quello che vogliamo. Lo scienziato quanto più dipenderà umilmente dalle cose, tanto più sarà nel vero e così l'esegeta dipende dal libro quale la Chiesa glielo consegna.
Dal difetto di questa dipendenza negli esegeti si passa al difetto dei teologi che fanno della teologia biblica. In quanti manuali di teologia dogmatica si fa dire a un testo di sant'Ambrogio, di san Giovanni Crisostomo più di quanto esso non dica per appoggiare una tesi! La teologia patristica non si fa sul modello prestabilito della teologia di san Tommaso o della teologia post-tridentina: occorre entrare nel mondo spirituale di ogni singolo padre. Una verità che oggi nei manuali di teologia è un corollario, potrebbe essere invece centrale e determinante nella teologia monastica: occorre entrare nel mondo di ogni teologo e rispettare il suo mondo. La teologia di san Gregorio di Nissa non è la teologia di san Giovanni Crisostomo, né questa è la teologia di sant'Agostino. Secondo i manuali i Padri non farebbero che ripetere tutti il medesimo insegnamento.
Così è per l'esegesi biblica. Si toglie al suo contesto e si mette ogni singolo salmo in un altro ordine e si crede di poter costruire così una teologia del Salterio. La sintesi dottrinale non può essere prestabilita; ogni volta che studiamo un autore o un'opera entriamo ogni volta in un mondo diverso. La teologia del Salterio è in gran parte stabilita dall'ordine stesso che hanno i salmi, nell'unità stessa dell'opera. Strappare i salmi al loro contesto per catalogarli nei vari generi letterari è compromettere, almeno in parte, il loro valore dottrinale, è poi già rinunciare a riconoscere l'unità stessa del Salterio, del quale fanno parte. Strappare i salmi al loro contesto per inserirli in una sintesi nuova, magari sullo schema del Pater noster, che è la preghiera cristiana, è violentare il loro senso.
Si può dire che l'unità del Salterio è l'unità di un dramma che si svolge attraverso i tre atti fondamentali che abbiamo determinato sopra: la guerra — i metodi di guerra, chi è che combatte, chi è che è oppresso, chi è che sembra essere vinto, quali sono le armi del male, quali sono le armi e i metodi del bene —. Il giusto sembra che debba essere sconfitto. Al contrario il secondo atto è il giudizio di Dio, e nel giudizio di Dio l'annullamento del male. Colui che era povero e disprezzato è l'amico di Dio, il giusto si era fidato di Dio e in Dio ora è salvato e sussiste. Il terzo atto è la lode, la vita del regno messianico, la vita del mondo di Dio.
Ma la lode divina è al termine del cammino, è la fine del dramma. Prima della lode in cui si realizza l'unità del creato con Dio, il Salterio ci fa assistere all'azione del male, del peccato, della morte, che in una rovina universale sembra rendere vano il disegno di Dio. All'inizio, Dio è come assente dalla scena del mondo, in cui sembra trionfare solo la potenza del male. Il primo atto di quel dramma è in questa visione paurosa. La preghiera viva, umile di coloro che sembrano essere abbandonati alla forza del male, introduce misteriosamente, ma realmente, Dio nel cuore dell'azione e la presenza di Dio provoca il giudizio. Il male è vinto, Dio regna; il povero, il giusto, colui che ha invocato il Signore ora non hanno più che da riconoscere la potenza vincitrice di Dio nella lode.
Sono i tre atti fondamentali, attraverso i quali il Salterio non solo vede il disegno divino di una storia del mondo, ma ci fa partecipare attivamente a questa medesima storia.
Noi occidentali siamo troppo logici; il cammino della logica va dritto al suo termine; il semita non è un logico, in lui il primato è della vita e la vita non procede in un cammino continuo; il suo è un cammino complesso, non è mai semplice.
Così per arrivare ad essere uomini, bisogna passare attraverso le crisi della pubertà e della giovinezza. Anche la vita spirituale nel suo cammino sembra passare attraverso delle involuzioni. Anche nella preghiera dal fervore si passa all'aridità: diveniamo aridi come una pietra, secchi come un legno secco; non si riesce più a dir nulla, non si riesce più a pensare. Siamo dunque perduti? Probabilmente, al contrario, andiamo avanti: è così che si va avanti. In ogni vera crescita passiamo attraverso numerose crisi, perché la nostra vita interiore, la nostra stessa preghiera si possa approfondire, si purifichi, divenga meno legata al sensibile e più spirituale.
È questo cammino che descrive il libro dei salmi. Fin dall'inizio questi carmi ci parlano di un giudizio divino, fin dall'inizio l'anima è invitata alla lode divina e tuttavia all'inizio grava soprattutto il potere dell'empietà, sembra essere dato al male ogni potere: il povero, l'umile, chi confida in Dio è solo, come abbandonato: le malattie lo torturano, le incomprensioni degli amici, i tradimenti, gli fanno sentire il peso della sua solitudine, la lontananza di Dio grava sopra di lui. La preghiera è un grido di angoscia, è un lamento senza fine. Contro all'innocente, al povero che prega, il mondo è coalizzato per opprimerlo e distruggerlo: tutto il potere del mondo è in mano dell'empio, contro di lui. Questo esprimono in modo particolarissimo i primi quarantuno salmi del Salterio.
È meditando questi salmi che si può capire che cos'è la vita dell'uomo che si affida a Dio. La preghiera sale dall'abisso della sofferenza e dell'angoscia, perché sono la sofferenza e l'angoscia dell'uomo che sembrano far presente Dio nel deserto del mondo. Dire i salmi non è nulla, dobbiamo viverli e per viverli bisogna conoscere questa condizione di pena.
Perché i salmi siano veramente la nostra preghiera occorre che siano la nostra parola, l'espressione cioè di un'intima vita. Dobbiamo essere questi poveri che implorano e non sembrano avere risposta. La parola dei salmi se deve essere la nostra preghiera, deve essere anche l'espressione della nostra vita profonda come della storia degli uomini.
Rimane vero che la vita spirituale, di cui i salmi ci dicono la dimensione reale, se implica il senso della povertà umana, della sofferenza, ha il suo termine nella lode di Dio: il cammino dunque va dall'abisso della dannazione umana alla gloria luminosa di una lode divina, in cui la vita spirituale trova il suo compimento. È nella lode che Dio si fa presente nell'universo e vive in noi la sua vita. Non è Dio che riceve qualcosa dall'uomo, è l'uomo che nella lode divina partecipa della vita del Figlio di Dio, che è la lode del Padre. Quando tutto l'universo vivrà la lode a Dio, l'universo vivrà allora la vita del Figlio.
La lode di Dio è la stessa vita divina. Si loda Dio per quello che siamo: così il Verbo loda Dio per quello che è, egli infinito, come il Padre è infinito. Per questo, lode conveniente, lode che risponde perfettamente alla perfezione del Padre, è soltanto il Figlio unigenito. Pura lode il Figlio, perché il Padre totalmente si contempla e riposa nel Figlio suo. Nella lode degli uomini e dell'universo, l'universo e gli uomini vivono nel cospetto del Padre per essere in qualche modo associati alla vita del Figlio. Ricevono la luce e rimandano la luce alla propria sorgente. Vivono la vita divina e sono come l'ostensorio di Dio. L'uomo deve esserlo già fino da ora, ma lo sarà perfettamente nel cielo.
La lode divina, come si esprime nell'ultimo salmo, è di fatto la rivelazione della vita eterna, della vita di Dio che è traboccata nell'universo e non soltanto si è effusa ma ha riempito, ha colmato tutti gli abissi, sicché alla fine non è più che la luce. L'uomo sussiste, ma non dice che Dio. Questa vita è così bella che fa anche paura; non rimane che Dio, ma un Dio che vive in tutti: e Dio sarà il tutto in tutte le cose (1 Cor. 15,28). Tutti sussisteremo, ma per non dire più che lui, la sua vita; e la sua vita è una ed è immensa. Non è più che la luce, una luce infinita.
Ma questa è la morte. Fra paradiso e inferno non c'è differenza; la differenza è creata da noi: se noi amiamo e ci lasciamo devastare da questa luce, noi vogliamo che Dio sia. L'uomo deve veramente morire a se stesso, deve volere che il 'suo' io veramente venga meno per essere egli posseduto dall'Amore. Se tu ami ti vuoi donare, non vuoi tenerti per te; ma l'amante sussiste precisamente in questo dono continuo di sé a colui che ama; così l'uomo sussiste nell'atto stesso onde vuole la sua morte e accetta il suo morire per essere invaso eternamente dalla luce infinita di Dio.
Chi invece non ama, di fronte a questa luce ha paura, la odia, non la vuole e tuttavia non la può respingere da sé. La luce è la morte dell'uno e dell'altro, ma per l'uno è la morte gaudiosa nell'amore, per l'altro è la morte spaventosa dell'odio, di chi respinge la luce e ne è accecato, distrutto. Egli non può sottrarsi al suo morire e non vuole. Questa è la vita impossibile del dannato. Egli non potrà mai impedire a Dio di essere Uno, di essere 'Solo': così il dannato non vivrà che la sua morte, senza vivere Dio, perché non lo ama.

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