Benvenuto: PAX et BONUM

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mercoledì 23 novembre 2011

La parola d'Israele è la parola dell'uomo

La parola d'Israele è la parola dell'uomo

È difficile entrare nel mondo dei salmi. In realtà realizzare questa parola, far sì che questa parola divenga la nostra parola, non è impresa facile.
Prima di tutto dobbiamo renderci conto che questa parola è la parola stessa di Dio; ed è questa che deve divenire parola dell'uomo. L'uomo dunque si realizza nella misura che realizza Dio. Non sarebbe parola di Dio, la parola dei salmi, se non dovesse rivelare in qualche modo la sua na­tura, la sua volontà, se non dovesse rivelare il mondo divino.
Ora, in che modo questa parola può divenire la parola dell'uomo, se l'uomo stesso in qualche modo non incarna Dio? se l'uomo stesso non diviene realizzazione di questa volontà pura, il compimento del disegno di Dio, la rivelazione della sua santità?
Nella misura che questa parola viene pronunciata dall'uomo, che ancora non si è trasformato in Dio, essa, sulle labbra dell'uomo suona menzogna, non può che suonare men­zogna. Se la parola di Dio non cessa di essere parola di Dio per divenire la nostra parola, deve realizzare una nostra trasformazione, anzi la suppone. Finché questa trasformazione non si è compiuta, la parola di Dio non può essere usata da noi che in quanto essa ci condanna. Manifesta infatti la nostra estraneità, dice la nostra lontananza da Dio.
Ma queste nostre parole suonano false. Di fatto la parola dei salmi è parola di Dio non perché suppone una nostra trasformazione, ma perché la opera efficacemente. È infatti la parola di Dio ma diviene preghiera, supplica all'Onnipotenza nelle labbra del povero perseguitato, invocazione alla infinita misericordia nelle labbra dell'uomo peccatore. È ve­ro che è parola di Dio, ma è unaparola di Dio che è incarnata in qualche modo, è divenuta già in qualche modo la parola stessa dell'uomo, la parola di un popolo. Tutto un popolo attraverso questa parola ha detto le sue speranze, ha espresso la sua vita profonda, ha gridato il suo dolore, ha manifestato la sua gioia.
Ora questa parola è difficile, anche in quanto è parola dell'uomo, perché non è ancora la parola mia, ma la parola di una certa umanità, di un popolo singolare, di una civiltà alla quale non appartengo. Nella misura che non sono colui che ha scritto, nella misura che questa parola sulle mie labbra non è la parola di chi per primo l'ha pronun­ciata, certo è per me difficile perché non è mia; impone una mia trasformazione in chi per primo l'ha detta, l'ha espressa. E questo vuol dire una cosa immensa, ma anche una difficoltà estrema; vuol dire per me entrare nell'anima di un altro, vuol dire per me entrare nella mentalità, nel modo di sentire di un altro popolo, di un'altra civiltà, di un altro tempo, in una lingua che non è la mia lingua. Gli uomini sono così diversi! Ora, questa parola non è la pa­rola di un popolo al quale appartengo, non è la parola di una civiltà che è la mia civiltà, non è la parola di un uomo che reagisce come reagisco io alle impressioni, ai dolori e alle gioie che intessono la vita di ciascuno di noi. Com'è possibile che questa parola divenga la mia parola?
Si deve dire: la parola di Dio, divenendo parola dell'uo­mo, non si è confinata in un certo luogo, non è divenuta la parola soltanto di un popolo o di uomo singolare, è divenuta la parola dell'umanità. Non per nulla questa parola rimane normativa per tutte le anime ed è il libro della preghiera di tutti: degli uomini di tutte le razze, degli uomini di tutti i tempi.
Ma di qui ancora un'altra difficoltà: questa parola diverrà veramente la mia parola, quando io mi sarò spogliato in qualche modo di ogni mia individualità, non di ogni mia distin­zione personale dall'altro, ma di tutto quello che mi separa, mi chiude. Io debbo divenire persona, non debbo essere più individuo.
L'individuo è l'uomo non solo che si distingue dall'altro, ma colui che in qualche modo dall'altro è diviso. È l'uomo che, nel piano della natura, attesta una sua distinzione dagli altri nella misura che si chiude in se stesso e si difende da una solidarietà, da un'unità con tutti.
Sul piano di natura la legge propria della creatura è l'egoi­smo, non tanto un egoismo morale, che implica il peccato, ma un egoismo metafisico che è inerente alla creatura come tale. In Dio la Persona non è individuo, una natura sepa­rata e divisa, la Persona è puro rapporto di amore. Ora, perché la parola di tutta l'umanità divenga la mia parola, io non posso cessare di essere persona, ma debbo cessare di essere individuo; non posso cessare di essere persona, ma debbo realizzare il mio valore personale divenendo amore puro, divenendo l'uomo nel quale s'incarna ogni valore umano, l'uomo che è uno veramente con tutta l'umanità, l'uomo che non è diviso da alcuno, pur essendo distinto da tutti, l'uomo nel quale vive la vita di tutto l'universo, pur non confondendosi con alcuno.
Come il Padre è tutta la vita eppure non è il Figlio, come il Figlio è tutta la vita eppure non è il Padre, così, se que­sta parola è la parola dell'uomo, io debbo essere tutto l'uo­mo, tutta l'umanità, pur essendo distinto da ciascuno. Pur essendo distinto, tutti debbono vivere in me ed io debbo vivere in tutti un'unica vita; perché unica sia anche la mia e la parola di tutti, una parola che non è più la mia parola, ma è la parola dell'uomo che in ciascuno di noi loda Dio o piange la sua pena. Tutta l'umanità che vive in te la sua sofferenza o la sua gioia, la sua salvezza o la sua dannazio­ne, ecco la parola dei salmi. Che estrema difficoltà dunque far nostra questa parola! Si capisce perché: ci sono ragioni di ordine teologico, di ordine metafisico, di ordine storico. E non sappiamo quali siano le ragioni che fanno più grande questa difficoltà di parlare con la parola di Dio, di parlare con questa parola, di far sì che la nostra parola praticamen­te si identifichi a questa che ogni giorno noi diciamo a Dio e proclamiamo nella Chiesa.
È certo che la parola di Dio non può divenire parola dell'uomo che in quanto l'uomo si trasforma; altrimenti la parola di Dio sulle labbra dell'uomo diviene qualche cosa di sacrilego, come di chi osi far sua la parola di Dio senza essere lui! Far mia questa parola è profanarla, far mia que­sta parola è umiliare Dio. Ma una cosa ci soccorre, una grande verità ci è di aiuto: il fatto che Dio stesso abbia voluto essere uomo, umiliarsi fino alla forma di servo, accettare davvero il nostro stato di peccatori.
È vero che noi non potremo mai far nostra la parola di Dio, ma è vero che la parola di Dio ha voluto essere ve­ramente, fino in fondo, la parola di un uomo, dell'uomo dei dolori, dell'uomo chenon conobbe il peccato e è stato fat­to peccato per noi (cf. 2 Cor. 5,21). Prima che Dio si facesse uomo nell'umiliazione suprema dell'incarnazione e della mor­te di croce, Dio si era già umiliato assumendo la nostra povera parola e aveva manifestato la sua volontà in una parola umana. Così la parola di Dio era già divenuta la pa­rola dell'uomo.
Tuttavia Dio si fa uomo, perché l'uomo divenga Dio. Se Dio ha assunto come parola sua la parola dell'uomo – il suo grido di dolore, la sua ansia, la sua speranza, la sua lode –, è vero che questa parola noi possiamo ripeterla, ma la ripetiamo precisamente in un processo onde questa stessa parola ci trasforma in Colui che la dice: la dice attraverso l'uomo, la dice per mezzo nostro, ma Colui che la dice rimane Dio. In altre parole: veramente l'incarnazio­ne del Verbo, la morte di croce, la suprema umiliazione per cui egli scende nell'abisso della nostra umiltà e della nostra miseria, è anche strumento della nostra elevazione per cui noi diveniamo giustizia di Dio in Lui e siamo redenti (cf. 2 Cor. 5,21).
Il mezzo che Dio ha scelto di umiliarsi nella parola dell'uomo, diviene per l'uomo lo strumento che lo innalza perché egli possa ora parlare a Dio e dire a Dio la parola stessa di Dio. La difficoltà sarebbe estrema, sarebbe insuperabile se io presumessi di far mia la parola di Dio; ma non è l'uomo che ardisce far sua la parola di Dio. L'attentato dell'uomo sarebbe sacrilego e blasfemo e il suo atto impotente. Non è così. È Dio che ha fatto sua la parola dell'uomo; ha parlato attraverso la sua parola, attraverso questa parola è lui che si è espresso. Così la parola umana è divenuta parola di Dio. Dio si è rivelato nella parola della nostra debolezza, della nostra povertà, della nostra umiltà; attraverso questa umiliazione di Dio, che assume la parola dell'uomo, l'uomo ora parlando esprime Dio, rivela Dio, lo prega, s'innalza fino a lui e in lui si trasforma. Così Dio dice la parola dell'uomo e l'uomo dice la parola di Dio. La difficoltà è superata non dalla volontà prometeica dell'uomo onde egli da solo tenta di raggiungere Dio, tenta di usur­pare la vita divina e di impadronirsi del suo potere. Dio ha voluto che veramente tu lo possegga, e proprio per questo, prima di farsi uomo, si fa parola sulle tue labbra; per que­sto non si è fatto uomo soltanto sulla croce, ma grido di dolore sulle tue labbra, ma gioia nel tuo cuore che prorompe nel canto.
Rimane l'altra difficoltà di ordine metafisico. Si diceva prima: questa parola di Dio, nella parola dell'uomo, non è la parola di un uomo diviso dagli altri, è veramente la parola dell'uomo, dell'umanità, la parola di un'umanità che conosce, nella sua condizione di pena, la miseria del peccato, la sofferenza della malattia, la persecuzione dei nemici, l'espe­rienza della morte, la solitudine umana; e conosce insieme la gioia della famiglia, l'esaltazione della vita associata nella città, nell'obbedienza al suo re, nella partecipazione agli atti della moltitudine nella guerra, nella costruzione della città, nelle feste religiose: è l'uomo totale che si esprime in questa parola. Come Dio in questa parola si rivela all'uomo, così anche rivela l'uomo a se stesso. Dio non poteva assu­mere la parola dell'uomo che in questa pienezza di una parola che rivelava tutto l'uomo. La difficoltà metafisica consiste in questo: come tu, che sei un uomo singolo, puoi vivere tutta la vita? come tu, nella parola che dici, potrai esprimere te stesso come uno con tutta l'umanità, quasi che tutta l'umanità vivesse in te e tu vivessi in tutta l'uma­nità? come noi non possiamo far nostra la parola di Dio che trasformandoci in Dio per la forza stessa della parola che ci è stata comunicata, così non possiamo far nostra la parola dei salmi, che è la parola dell'uomo, che in una liberazione da ogni egoismo, in una nostra pienezza, in un allargamento e dilatazione della nostra anima fino ad essere solidali, anzi una cosa sola con tutti i fratelli, in tal modo che noi non viviamo una nostra misera vita, ma nella nostra vita viva tutto l'universo, tutta l'umanità, l'umanità di tutti i tempi; ogni uomo, l'assassino come il santo, il padre di famiglia come il sommo sacerdote, il re, il moribondo, l'umiliato, l'oppresso: tutti, perché tutti parlano attraverso questa parola. E tutti debbono essere in te presenti perché tu possa dire questa parola che è la parola dell'uomo totale, dell'uomo uno. La difficoltà qui è estrema perché suppone la liberazione da ogni egoismo. Noi ci teniamo tanto a col­tivare una nostra piccola aiuola; non solo a distinguerci dagli altri, ma anche, in qualche modo a difenderci dagli altri, per una nostra proprietà che tanto più diviene pic­cola quanto più noi la teniamo stretta e la coltiviamo come una cosa preziosa. La proprietà è sempre qualcosa che ci immiserisce, ci chiude nella misura che noi a questa pro­prietà ci attacchiamo. Per veramente possedere ogni cosa occorre non avere più proprietà alcuna. Quello che è proprio non è di tutti: tutto è tuo e tutto è anche di ognuno, perciò nulla ti è proprio, dal momento che tutto vuol possedere, ma perché tu veramente possegga tutto, occorre che tu sia totalmente povero. Liberato da ogni proprietà e perciò da ogni egoismo, veramente tutto l'universo diviene tuo e tutta l'umanità vive nel tuo cuore.
Per vivere i salmi devi essere l'uomo. Per questo i salmi furono la preghiera del Cristo, sono la sua parola. Egli solo, in verità, pienamente poteva far sua questa parola; in lui era tutta l'umanità che parlava, gemeva, supplicava e lodava Dio. In ognuno di noi questa parola può essere veramente la sua parola nella misura che ognuno di noi si sarà trasformato nel Cristo, cioè nell'uomo universale e concreto. E perché questo avvenga bisogna superare le forche caudine, entrare cioè in questa umanità, vivere questa totalità della vita attraverso la porta stretta di un particolare lin­guaggio, di un particolare temperamento, che non è il nostro, di una lingua che non è la nostra lingua, di una cul­tura che non è la nostra cultura. Il genio della lingua: non ci rendiamo nemmeno conto di come una lingua stessa ci plasmi, ci educhi.
La lingua che noi usiamo fa parte delle lingue occidentali. Le famiglie delle lingue sono tre: quella orientale che è pittorica, la famiglia semitica, cioè araba ed ebraica, che espri­me soprattutto la forza del volere, la famiglia occidentale, che è la lingua del pensiero. Usare la lingua italiana, francese, inglese, tedesca, russa, vuol dire essenzialmente pen­sare. Invece parlare per un cinese non vuol dire pensare, vuol dire vedere: egli mette in rapporto le immagini. La stessa scrittura ideografica è simile a una pittura. Anzi la pittura più bella per un cinese è la sua stessa scrittura. Ogni parola è veramente un'immagine. Non il concatenamento logico dell'idea forma il discorso, ma l'accostamento delle immagini, come nella pittura; per questo è difficilissimo insegnare la nostra teologia a un giapponese o ad un cinese. È difficile che egli possa penetrare in un linguaggio puramente concettuale. Ha bisogno di vedere.
La lingua ci educa: ci dà un temperamento, ci dà un modo di pensare e di sentire le cose. Ora noi dobbiamo en­trare in una lingua che non è la nostra, in una lingua che non è logica, come la nostra, e non è pittorica come le lin­gue dell'estremo Oriente. La lingua semitica esprime la pura forza dell'atto, è originaria e immediata come la vita. La poesia dell'Occidente non esprime mai nell'atto imme­diato i sentimenti dell'uomo. Ha bisogno di ricordarli, ha bisogno di decantare i suoi sentimenti; la ragione intervie­ne e fa da mediatrice ai sentimenti del poeta. Questa poe­sia si distingue per una certa purezza, una calma interiore, un certo modo di vedere in distanza le cose: i sentimenti si purificano, ma hanno meno forza. Al contrario la poesia dei salmi: sono parole scomposte che prorompono, è lin­guaggio elementare; anche la parola è azione. È questa la lingua dei mistici. Così l'esperienza religiosa più alta è consegnata alla lingua semitica. Indipendentemente dall'espe­rienza che deriva da una rivelazione autentica di Dio, an­che l'esperienza religiosa più alta, al di fuori delle religioni strettamente rivelate, è consegnata a una lingua semitica fissata nel Corano. Hanno qualche ragione gli arabi a dire che, tradotto, il Corano non è più sacro, non è più parola di Dio e altrettanto dicevano gli ebrei. Anticamente si domandavano se la traduzione dei Settanta fosse anco­ra la Bibbia. Non è la Bibbia, dicevano, perché tradotta non è più parola di Dio. Infatti ogni traduzione è già un tradimento; ogni traduzione è infedeltà. Infedeltà allo spi­rito se non alle parole, se non al senso; ma la parola non esprime soltanto dei concetti, rivela una vita, vuol essere l'espressione dell'essere autentico nella sua totalità. Per que­sto siamo consapevoli che si può tradurre un romanzo o un libro di scienza, ma non si traduce una poesia. Non si traduce Montale in francese e tanto meno in arabo, in cinese. Non rimane più nulla. Nostro Signore, per aver voluto parlare la lingua dell'uomo, ha dovuto assumere la lingua di un popolo e di una civiltà. È vero che in questa civiltà, in questo popolo egli ha espresso tutta la vita dell'uomo, tuttavia è passato attraverso il linguaggio di un popolo e di una civiltà.
Devi superare la difficoltà di un linguaggio che non è il tuo, di un modo di sentire che non è il tuo. Siamo tutti un po' nobili, decaduti magari, ma nobili e ci teniamo ad avere una certa compostezza. Diceva Pascoli a proposito della poesia italiana: «I nostri poeti, anche se non sono fanciulli, bisogna che abbiano sempre le scarpine bianche e pulite, anche quando giocano». Quando si prega non si gioca: è questo l'atto più solenne dell'uomo. E allora è naturale per noi disporci alla preghiera con la compostezza esteriore e usare un linguaggio corretto, pacato. Ma la pa­rola dei salmi prorompe nel grido, nell'imprecazione che sembra a volte rasenti la ribellione e la bestemmia. La parola è senza pudore: arriva all'espressione del dolore più sconsolato è senza misura. Noi ci sentiamo come spaesati e sconcertati da questo linguaggio. Se vogliamo far nostra questa parola abbiamo bisogno di tutti i rivestimenti di una civiltà che ha sì donato molto all'uomo, ma l'ha anche nascosto a se stesso. Ha dato all'uomo una certa nobiltà esteriore, ma anche l'ha camuffato sotto una maschera.
Com'è difficile far nostra questa parola! Le difficoltà sono grandi. Le potremo noi superare? certo: dobbiamo supe­rarle, perché la Chiesa ci consegna i salmi perché siano la nostra parola, come sono la parola di Dio. E vuole che attraverso questa parola si esprima il nostro essere integrale. E dunque è nella misura in cui noi entreremo nel mistero del Cristo, che questa parola diverrà la nostra parola e ripeterla non sarà per noi una menzogna, ma noi la diremo, come diceva Cassiano, come se noi la componessimo oggi, come se da noi uscisse ora, quasi dalla sua prima sorgente, come se fosse una parola non solo autentica, ma che oggi zampilla nel modo più nativo e più proprio di noi.
Le difficoltà però si superano nella misura che noi prima di tutto siamo docili a Dio, che, come ha voluto assumere la parola dell'uomo, vuole ora parlare egli stesso attraverso l'uomo. Nella misura che ci trasformiamo in Cristo, questa sarà la nostra parola perché è nella misura in cui ci trasformiamo in Cristo che diveniamo anche l'Uomo. Ecce Homo! (Gv. 19,5) Trasformati nel Cristo saremo trasformati in colui che ha assunto la nostra natura per vivere la vita di tutti.
E questo importa un'ascesi: la liberazione da ogni nostro egoismo, ascesi della volontà, ascesi anche della nostra intelligenza, rinunzia al nostro modo di sentire e di vedere, per entrare in un mondo nuovo più ampio e più vero del nostro piccolo mondo. La rinuncia a noi stessi è molto più profonda di quello che comunemente si crede. Comunemente si parla di una rinuncia a noi stessi sul piano morale; si esige invece una rinuncia a tutto quello che noi siamo nel modo stesso di sentire e di pensare, perché il mondo di Dio non è il mondo dell'uomo, né il mondo dell'uomo è esattamente il nostro mondo. Ma tu entri in questo mondo, che è il mondo dell'uomo ed è il mondo di Dio, e non è il tuo mondo, nella misura che tu muori a te stesso per vivere in Cristo Gesù. Per questo l'uso dei salmi importa un'ascesi. È esercizio di ascesi, prima che testimonianza d'esperienza mistica. Come reciteremmo più volentieri dei salmi preghiere composte oggi che rispondono meglio, ci sembra, alla nostra esperienza religiosa, che sono, ci sembra, in modo più vero l'espressione della nostra vita! Come può essere l'espressione della nostra vita la parola di un uomo vissuto duemila anni fa? un uomo che appartiene a un'altra civiltà, a un altro popolo, un uomo che non ha nulla in comune con me tranne la natura umana? Perché tu possa vivere la vita di tutti gli uomini, devi liberarti da tutto quello che è tuo; da tutto quello che è proprio e ti divide e ti contrappone agli altri. Allora, liberandoti veramente da tutti i limiti che ti chiudono, non tanto in te stesso quanto forse nell'esperienza stessa di una certa civiltà e di un certo popolo, tu potrai divenire veramente strumento di una vita universale che attraverso di te si esprime e parla a Dio. Tu puoi dire che anche la parola dei salmi è la parola di un popolo e di una civiltà e non è la parola dell'uomo, ma proprio perché Dio l'ha fatta sua, perché è Dio che ha parlato con questa parola, questa parola è divenuta anche la parola di tutta l'umanità.
La Chiesa comanda la recita dei salmi, che sono la sua preghiera. Questa è l'unica preghiera ispirata, l'unica cioè nella quale l'uomo può parlare, perché questa parola è stata assunta da Dio e sarebbe veramente una vana pretesa e presunzione da parte dell'uomo il credere che altrimenti la sua parola possa essere la parola di tutti. Nemmeno l'ebraismo avrebbe potuto pretendere che il suo linguaggio divenisse la parola di tutta l'umanità, se Dio stesso non avesse assunto questa parola e non fosse divenuta la sua.
La parola di Israele, divenuta parola di Dio, ha spezzato i suoi limiti, è divenuta capace di esprimere e di trasmettere una vita che era più potente della vita di un popolo e si è fatta capace di esprimere la vita dell'uomo. Rimane infatti che Dio, incarnandosi, non si è fatto romano o gre­co, cinese o indiano, ma si è fatto ebreo e questo fatto ha certo conseguenze incalcolabili per Israele. Più di ogni altra nazione il popolo d'Israele sembra aver acquistato la capacità, in forza dell'incarnazione divina, di riassumere tutta l'umanità e di fatto la sua storia è divenuta il paradigma della storia universale. Con l'incarnazione è questo Uomo concreto che appartiene a una razza, a una civiltà, che pienamente e definitivamente realizza l'universalità umana.
Così per la lingua: Dio certo poteva scegliere un'altra lingua, ma ha scelto la lingua ebraica e questa è divenuta, per tale fatto, la lingua di Dio, capace di esprimere tutta la vita dell'uomo, perché dovesse esprimere la vita stessa di Dio.
Questo privilegio tuttavia non è esclusivo della lingua ebraica, perché Dio ha scelto anche la lingua greca: alcuni Vangeli e le lettere di san Paolo sono stati scritti in greco. Eppure rimane vero che se Dio ha scelto, per rivelarci il suo mistero e per annunciarci la salvezza, la lingua greca, non ha scelto questa lingua per la preghiera. Come lingua di insegnamento sembra che la parola universale sia divenuta, con il Nuovo Testamento, la lingua greca; ma i salmi, la preghiera ispirata, rimangono in lingua ebraica.
In quanto l'uomo si rivolge a Dio con la preghiera si esprime ancora e si esprimerà sempre attraverso il genio di una lingua che prestò docilmente al cuore di Cristo i modi e la forma perché egli potesse esprimere la sua stessa preghiera.
Il genio della lingua ebraica è dunque il più atto ad esprimere tutta la vita dell'uomo nella sua preghiera a Dio, il più atto ad esprimere tutta la vita del mondo nella preghiera.

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